Assunzione della Vergine

Ricordata a partire dal Superbi (1620) sulla cantoria della chiesa del Gesù dove rimase fino alla metà del XIX secolo, la tavola, probabilmente venduta nel 1841 in seguito alla collocazione del nuovo organo (Boschini 1844), passa nella collezione Mazza dove, seppure segnalata in seguito dall’estensore degli emendamenti al Baruffaldi (1846) e dal Laderchi (1856), rimase pressoché ignorata fino al suo ritrovamento effettuato dalla Novelli nel 1964. Il dipinto è particolarmente interessante in quanto rappresenta un “unicum” dell’attività artistica di Leonardo Brescia, un pittore di cui non si conoscono con certezza neppure i termini cronologici ( ma che, tuttavia, opera nella seconda metà del Cinquecento), e ancora oggi pressoché sconosciuto benché le fonti storiche e documentali testimonino di una ricca attività pittorica esercitata per la corte estense, di un’attività di plasticatore insieme ai fratelli Galasso e Baldisserra dalle maschere e di un’altrettanto importante attività di fornitore di cartoni per arazzi per la Manifattura Estense. Il recupero dell tavola viene pertanto a meglio individuare la fisionomia dell’artista certamente di formazione ferrarese, come è stato chiarito dalla Novelli (1964, 1973) e da Frabetti (1972) ma già coinvolto dai modi accademici della “maniera” di Vasari e orientato, a differenza del Bastarolo e di Mona, verso un linguaggio formale che tende a reinterpretare la grande pittura ferrarese (Dosso, Garofalo, G. da Carpi) nei suoi aspetti più aulici e letterari. Eseguita “probabilmente nel penultimo decennio del Cinquecento al tempo delle grandi commissioni al Bastarolo e al Dielaì” come propone la Novelli (1973), l’assunzione della Vergine, già giudicata da Baruffaldi “d’un gusto finissimo” e eseguita “sulla maniera parmigianinesca” rivela, infatti, un artista che rimedita la propria formazione dossesca secondo un’ottica formale già contaminata dal “romanismo” di Camillo Filippi cui è riconducibile la monumentalità el gruppo degli Apostoli in primo piano, mentre la struttura massiccia e larga della Vergine e degli Angeli si rifà ai modi della Santa Caterina in adorazione della trinità eseguita per la cattedrale ferrarese dal Dielaì che giusto negli anni Ottanta collabora con il Bastarolo alla decorazione del soffitto della chiesa del Gesù.;a cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Leonardo Brescia

San Bruno

Per quanto concerne l’attribuzione di questa tela, nel 1962 A. Emiliani fece il nome di Carlo Bonone e propose di metterla in relazione con una di analogo soggetto che, secondo Baruffaldi, l’artista aveva dipinto per la Certosa di Ferrara e che venne poi trasferita alla Pinacoteca di Brera fin dall’età napoleonica. In seguito questa proposta è sempre stata accettata finché, di recente, J.Bentini l’ha messa in dubbio perché l’opera, ad un esame più attento circa la tecnica pittorica ed il supporto, appare più tarda. Nel dipinto in oggetto, il Santo è rappresentato di scorcio e con le caratteristiche del “memento mori”, poiché nella mano sinistra reca il teschio a testimoniare la necessità della meditazione sulla vanità della vita e la fugacità delle cose terrene, in un atteggiamento di vibrante naturalismo evidenziato dal potente uso del chiaroscuro. Per quanto riguarda il possibile modello, Federico Zeri ha segnalato come figure devozionali di tal genere e con questa impostazione dinamica siano state più volte realizzate da Giacinto Brandi, pittore che dalla natia Poli si trasferì giovanissimo (1630 ca.) a Roma, dove frequentò prima le botteghe di Algardi e Sementi, poi di giovanni Lanfranco. Nella capitale, oltre che numerosissime opere da cavalletto, a partire dal 1660 fu impegnato in importanti cicli decorativi tanto da poter essere considerato, almeno per gli anni Settanta, l’artista più celebre di Roma e anche colui che otteneva le più ragguardevoli commissioni, riuscendo a sommare una serie di doti, quali la rapidità nell’esecuzione, il prezzo “abbordabile” e la capacità di coniugare al meglio i due termini della cultura figurativa del proprio tempo, barocco e naturalismo, e a soddisfare, dunque, interamente il gusto dei suoi contemporanei. Una figura come quella del San Bruno pare accostabile alla produzione dei primi anni Sessanta di Brandi, ad opere come il San Benedetto Abate della chiesa di Sant’Angelo Magno di Ascoli Piceno o il Sant’Antonio nel deserto della Galleria Doria Pamphili di Roma, vale a dire in un momento di adesione dell’artista ai modi di Mattia Preti e in genere delle cultura napoletana di Ribera o Luca Giordano.;a cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Giacinto Brandi

I santi Lorenzo e Maria Maddalena

Girolamo Baruffaldi, nella Vita di Carlo Bononi, per dimostrare la vicinanza stilistica di quest’ultimo con Ludovico Carracci, afferma di aver visto nello studio dell’avvocato Zocca di Bologna un dipinto raffigurante San Lorenzo e Santa Maria Maddalena, proveniente dalla cappella Bonalberghi del duomo di Ferrara, secondo lui certamente di mano del pittore ferrarese, ma da tutti considerato di Ludovico Carracci. Lo storiografo precisa poi che il quadro comprato dall’avvocato Zocca quando quell’altare fu demolito. Nel catalogo della vendita Colnaghi a Firenze (palazzo Strozzi 23 settembre-9 ottobre 1989) è stato pubblicato un dipinto identico a quello oggetto di questa scheda, ma pochi centimetri maggiore e con la variante della mezza figura del committente al posto del libro che qui si vede in basso a destra. Poiché non è dubitabile l’autografia dei Santi Lorenzo e Maria Maddalena della Cassa di Risparmio di Ferrara, proveniente dalla collezione Massari Zavaglia ed attribuito a Bononi fin dal primo catalogo di questa raccolta, si potrebbe pensare che costituisca una replica dell’altro dipinto suddetto. Per quanto riguarda l’identificazione dei due Santi, citati nel catalogo Massari come Stefano e Agata, nel 1984 fu messa in discussione da Fioravanti Baraldi che, basandosi sui loro attributi iconografici, proponeva i nomi di Lorenzo e Caterina d’Alessandria. Il brano di Baruffaldi è comunque risolutore, anche perché la figura femminile reca nella mano, ben in evidenza, un vasetto con gli oli santi, per cui si tratta, con ogni probabilità, di Maria Maddalena. Stilisticamente il dipinto risulta assai vicino alla Vergine in trono con le Sante Caterina, Barbara e Lucia della Galleria Estense di Modena, databile al 1626, dove l figura di Santa Caterina risulta pressocché identica a quella della Maddalena.;a cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Carlo Bononi

Visitazione

La tavola è registrata nell’inventario 1850 come opera di “Dosso Dossi”; nell’inventario 1983 P.S.S Mina Gregori sposta la sua attribuzione verso un anonimo artista di scuola ferrarese della fine del XVI secolo. Ancora con questa attribuzione viene presentata in asta Pandolfini nel 1989. Dopo il suo acquisto da parte della Cassa di Risparmio di Ferrara (1991) e il suo ingresso nella Pinacoteca Nazionale di Ferrara, l’opera viene attribuita da Jandranka Bentini (1992) alla mano di Sebastiano Filippi, il Bastianino. Nella scheda di catalogo della Pinacoteca di Ferrara, la Bentini motiva la sua attribuzione:l’opera mostra un “grande vigore classicista, improntato a una forte volumetria dei corpi, (ed è) assegnabile con buon margine di certezza all’ambiente figurativo ferrarese della seconda metà del Cinquecento. Più esattamente sembra essere l’ambito di Filippi, di CAmillo e soprattutto di Sebastiano, a dettare la sintassi della composizione, serrata e imponente, completa di una gestualità teatrale e insieme iconica, consona ai dettami della controriforma figurativa”. La stessa pulitura del dipinto e l’analisi dei pigmenti hanno convalidato l’ipotesi attributiva, essendosi trovate analogie con altri dipinti del Bastianino. La tavola – forse parte di una serie dedicata alla Vergine- non trova specificamente menzione nella storiografia ferrarese, e quindi l’individuazione della provenienza diventa alquanto difficoltosa. Nemmeno il ritratto del committente, dipinto in basso a destra, aiuta nel riconoscimento di una specifica committenza. Il dipinto potrebbe essere datato al settimo decennio del XVI secolo negli anni intorno al 1565, vicino quindi alla Circoncisione già del duomo ferrarese, oggi alla Pinacoteca Nazionale di Ferrara, in un momento dell’attività giovanile dell’artista, “in grado di virare autonomamente il discorso dalle sacche tardo-garofalesche e raffaellesche ricalcate dal padre verso la modernità tibaldesca” (Bentini 1992). La “semplicità” della rappresentazione e la tipologia del volto della Vergine trovano una particolare analogia formale con altri dipinti “mariani” del Bastianino, come l’Annunciazione dipinta con la collaborazione di Ludovico Settevecchi per l’altar maggiore della chiesa delle monache di Sant’Agostino, e ora in Pinacoteca Nazionale di Ferrara.;Giuliana Marcolini, La collezione Sacrati Strozzi, I dipinti restituiti a Ferrara, Fondazione CARIFE, Federico Motta Editori S.p.A., 2005, Milano.;L’ipotesi attributiva è stata convalidata dall’analisi dei pigmenti, essendosi trovate analogie con altri dipinti del Bastianino. .La tavola (forse parte di una serie dedicata alla Vergine) non trova specificamente menzione nella storiografia ferrarese, sicché la individuazione della provenienza diventa alquanto difficoltosa.;

Sebastiano Filippi

San Gregorio Papa

La raccolta Massari, e prima ancora Lombardi, annoverarono le due tavole nei loro inventari, passate oggi in collezione pubblica. Fu merito di Francesco Arcangeli avere riconosciuto le due opere quali comparti di una tavola maggiore. Lo studioso, in maniera assai fondata, poneva in relazione i due Santi papi con i quattro dottori della chiesa registrati da Baruffaldi nel prospetto del coro della chiesa di San Nicolò dove attorniavano il vescovo Nicolò dipinto entro la tavola a lui dedicata, contenente anche una “Vergine Madre sulle nuvole col figlio al seno e vari angeli all’intorno”. Per quest’ultima lo studioso pensava potesse trattarsi della Madonna con il Bambino, già in collezione Droghetti, ma prima ancora Lombardi, da ricongiungere allo stesso complesso anche per via delle dimensioni assolutamente compatibili con altre immagini mariane dipinte dal Bastianino nelle cimase delle grandi pale. Il carattere della vastità della forma e insieme il chiarore della tavolozza cromatica avvicinano i due santi al Tiziano più maturo, una eco del quale, non modesta, è evidente nella tavolozza di San Francesco di Rovigo con la Madonan in gloria, Santi e donatori, restituita al Bastianino dal Longhi. Peraltro la Vergine al sommo dell’opera rodigina è identica a quella supposta per la tavola di San Nicolò, oggi in collezione privata: una consuetudine per Bastianino quella di utilizzare identici modelli iconografici anche in opere diacroniche, intervento che dà la misura della economia imprenditoriale della bottega del Filippi. Circa la datazione è possibile ipotizzare la fine del settimo decennio del Cinquecento, in assonanza con l’opera di Rovigo e per alcuni aspetti con le tavole della certosa di Ferrara.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Sebastiano Filippi

Sacra Famiglia con San Giovannino

Si tratta di un’operetta devozionale di squisita fattura: sono accostabili a questo soggetto tavole come lo Sposalizio di Santa Caterina della Galleria dell’Accademia di Ravenna, l’Adorazione di Monaco e ancora altri piccoli dipinti di collezioni private. La produzione di piccolo formato si muove per Bastianino in piena sintonia con quella monumentale, mutandosi la materia pittorica da definita in fluida, secondo una successione che segna un successivo allentamento dell’immagine. è evidente il classicismo del soggetto con accenti alla maniera tibaldesca. La datazione probabile per questa tavoletta è il 1565 ca., per le affinità strettissime con la pala del duomo raffigurante Santa Caterina di Alessandria e Barbara.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Sebastiano Filippi

Madonna col Bambino e San Francesco

Un’etichetta dietro alla tavola ricorda che il dipinto è stato esposto a Bologna ne 1948 alla Mostra di antichi dipinti da raccolte private bolognesi, dove era presentato sotto il nome di Francesco Francia. Nel catalogo dell’asta Sotheby’s del 1980, durante la quale fu acquistato dalla Cassa di risparmio di Ferrara, il quadro era descritto come opera di Ramenghi. Questa composizione, di larga diffusione devozionale, mostra evidente la derivazione da un modello replicato nella bottega del Francia e ripreso più volte dallo stesso Bagnacavallo, con la particolare affinità nello Sposalizio di Santa Caterina della Pinacoteca Nazionale di Bologna e nella Madonna col bambino e una Santa di ubicazione ignota (Bernardini 1986, fig. 131), opere da collocarsi intorno al primo ventennio del Cinquecento. Il fondo di paese aperto dietro le teste dei protagonisti, tanto caro agli allievi del Francia, viene qui sostituito da un pesante tendaggio di ispirazione garofalesca, che interiorizzando la composizione lascia intravedere un sereno e calmo paesaggio, argentato dalle stesse nuvole leggere che compaiono nella più importante Visitazione di Berlino. Il bambinello ritto sulle gambette, identico a Gesù nella già ricordata Madonna col Bambino di ubicazione ignota, ripete lo stesso atteggiamento del Bambino nella Madonna col Bambino e Santi di Francesco Francia alla National Gallery di Londra (Gould 1973, n.638); atteggiamento che ritorna identico, insieme ai gesti della Madre che con la mano destra coperta del manto sembra voler affettuosamente proteggere il Figlio, nella copia ottocentesca di una tavola del Francia, firmata e datata, conservata sempre alla National Gallery (Gould 1973, n. 3927).
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Bartolomeo Ramenghi

Tre Apostoli della Pentecoste

I Tre Apostoli, parte di una serie dedicata alla Pentecoste, conferma la propensione di Girolamo a partecipare a cicli decorativi condotti in collaborazione con altri maestri e mostra come l’artista ferrarese negli anni del ritorno in patria guardi principalmente all’opera di Giulio Romano a Mantova.

Girolamo Sellari

Sapiente con compasso e il globo

I due dipinti sono parte di una più ampia serie di cui sono al momento note altre tre opere. Non è nota la loro originaria provenienza, ma le dimensioni delle tele e l’erudito programma iconografico lasciano intendere che esse siano state concepite per decorare una biblioteca o uno studio di una certa importanza. Secondo l’interpretazione più convincente i dipinti componevano infatti un ciclo dedicato alle sette arti liberali (grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, geometria, astronomia e musica), individuate dagli oggetti che i sapienti tengono in mano: libri, pergamene, tabelle con figure geometriche e numeri, strumenti astronomici. La figura che misura la volta celeste con un compasso e tiene accanto un globo sul quale compaiono i segni zodiacali rappresenterebbe dunque l’Astronomia, alludendo forse al titano Atlante, che secondo gli antichi reggeva la volta celeste e nel Rinascimento fu definito “principe degli astrologi”. Il sapiente con il grande libro aperto davanti a sé raffigurerebbe invece la Grammatica, seppur in un certo momento della sua storia fu trasformato in un San Giovanni a Patmos con la dipintura di una aureola. Il fatto che a impersonare le arti liberali non siano, secondo la tradizione medievale, figure allegoriche femminile ma atletici e seminudi filosofi antichi rientra perfettamente nel gusto tipico di Dosso e della corte estense per le iconografie inconsuete.

Caratteristiche altrettanto distintive dell’opera dell’artista nei primi anni venti del Cinquecento sono le forme dilatate e l’esecuzione pittorica rapida e abbreviata. Le potenti figure maschili seminude segnano un vertice della riflessione di Dosso sui modelli michelangioleschi, richiamando in modo evidente gli Ignudi della Cappella Sistina, che il pittore ferrarese ebbe forse modo di vedere durante un viaggio a Roma nel 1520

Marcello Toffanello

Dosso Dossi

Giacobbe e Rachele al pozzo

Giacobbe è raffigurato nell’atto di sollevare la pietra che chiude il pozzo, Rachele in piedi o osserva. Alcuni pastori assistono alla scena. Nella parte inferiore del quadro sono visibili alcuni oggetti, animali ( due uccelli, una serpe, una tartaruga, caprette, pecore e cani) e strumenti musicali (cordofono, cromorno soprano, phagotus). Sullo sfondo un paesaggio con piccole figure.
AAVV, Il maestro dei dodici apostoli, Fondazione CARIFE, 2003

Maestro dei dodici apostoli

Riposo durante la fuga in Egitto

Non è nota la storia collezionistica della piccola tavola, che è che giunta in Pinacoteca grazie all’acquisto da parte della Fondazione Estense. Nonostante l’assenza del consueto asinello, la sacra famiglia sembra raffigurata mentre cerca rifugio da un temporale durante la fuga in Egitto, ma il soggetto religioso è quasi ridotto a pretesto per esibire un suggestivo paesaggio marino che si estende fino ai monti azzurrini all’orizzonte, fra insenature e città dai tetti aguzzi come nei dipinti dei pittori tedeschi. L’opera è riconducibile al momento immediatamente successivo alla prima esecuzione del Polittico Costabili, quando la collaborazione con Dosso rinfocola in Garofalo, ormai orientato verso Raffaello, la passione per il paesaggio evocativo e denso di umori atmosferici dei veneti. La foggia degli alberi e le nuvole tempestose indicano come i modelli di Giorgione siano ora reinterpretati dal Tisi alla luce delle opere del Luteri.
Marcello Toffanello

Benvenuto Tisi

Adorazione dei Magi

Un paesaggio che si apre dietro ad una massiccia architettura rinascimentale,descritto tra le tonalità sfumate di verde e l’azzurro delle montagne sullo sfondo, riconduce inequivocabilmente alla tradizione ferrarese, confermata dalla tipologia di figure dei Magi e dalla descrizione formale della Madonna col Bambino, quest’ultima particolarmente memore dall’attività matura di Niccolò Pisano.
Il paradiso perduto, per un archivio della memoria estense, Fondazione CARIFE, Pinacoteca Nazionale, 1999 p.65

Niccolò Pisano

Storie di Nigersol – Il commiato dall’eremita

Ad un primo sguardo sono questi magnifici paesaggi a catturare la nostra attenzione rispetto alle figurette in primo piano, che tuttavia raccontano i passi di una storia curiosa e degna di grande interesse. Le due tele sono parte di un ciclo (se ne conoscono sei, ma verosimilmente altre ancora sono perdute) commissionato a Scarsellino dal nobile ferrarese Luigi Nigrisoli per illustrare le mitiche origini della propria casata. Stando ad una tradizione locale trecentesca che colloca i fatti ancora più indietro nel tempo, i Nigrisoli  discendevano dal favoloso regno africano di Tombut (Timbuctù), il cui erede al trono fu costretto a fuggire in esilio ancora bambino. Trovò riparo in Sicilia dove si convertì al cristianesimo assumendo appunto il nome di Niger Sol, o Negro Sole, e in seguito la sua discendenza raggiunse l’Italia del nord e si stabilì a Ferrara. Sfruttando fantasiosamente le scarse fonti disponibili, come la cinquecentesca Descrittione dell’Africa di Giovanni Leone africano si alimentò così una leggenda perfetta per essere illustrata, e corroborata, da un ciclo encomiastico di dipinti.

Con il primo siamo già nel cuore della storia. In un immaginario paesaggio fluviale, il piccolo e i suoi zii fuggono da due draghi che vengono uccisi da un cavaliere e da un leone – protagonista dello stemma araldico Nigrisoli – sotto le preghiere di un monaco eremita: è l’abbandono del paganesimo che prelude al battesimo cristiano, dopo il quale, come ci mostra il secondo dipinto, la famigliola salutò l’eremita per proseguire nel suo cammino. I fertili spunti narrativi trovano un felice connubio con la poetica figurativa di Scarsellino, in cui risuona il gusto per i paesaggi fantastici, cara alla tradizione del Cinquecento emiliano, che invitano a perdersi verso orizzonti lontani popolati di edifici immaginari, mentre improvvise tinte fredde balenano nella luce mediterranea. Simili storie immerse in paesaggi dominanti furono un genere destinato ad affermarsi sempre più nella nascente pittura barocca.
Federico Fischetti

Ippolito Scarsella

Storie di Nigersol – La conversione

Ad un primo sguardo sono questi magnifici paesaggi a catturare la nostra attenzione rispetto alle figurette in primo piano, che tuttavia raccontano i passi di una storia curiosa e degna di grande interesse. Le due tele sono parte di un ciclo (se ne conoscono sei, ma verosimilmente altre ancora sono perdute) commissionato a Scarsellino dal nobile ferrarese Luigi Nigrisoli per illustrare le mitiche origini della propria casata. Stando ad una tradizione locale trecentesca che colloca i fatti ancora più indietro nel tempo, i Nigrisoli  discendevano dal favoloso regno africano di Tombut (Timbuctù), il cui erede al trono fu costretto a fuggire in esilio ancora bambino. Trovò riparo in Sicilia dove si convertì al cristianesimo assumendo appunto il nome di Niger Sol, o Negro Sole, e in seguito la sua discendenza raggiunse l’Italia del nord e si stabilì a Ferrara. Sfruttando fantasiosamente le scarse fonti disponibili, come la cinquecentesca Descrittione dell’Africa di Giovanni Leone africano si alimentò così una leggenda perfetta per essere illustrata, e corroborata, da un ciclo encomiastico di dipinti.

Con il primo siamo già nel cuore della storia. In un immaginario paesaggio fluviale, il piccolo e i suoi zii fuggono da due draghi che vengono uccisi da un cavaliere e da un leone – protagonista dello stemma araldico Nigrisoli – sotto le preghiere di un monaco eremita: è l’abbandono del paganesimo che prelude al battesimo cristiano, dopo il quale, come ci mostra il secondo dipinto, la famigliola salutò l’eremita per proseguire nel suo cammino. I fertili spunti narrativi trovano un felice connubio con la poetica figurativa di Scarsellino, in cui risuona il gusto per i paesaggi fantastici, cara alla tradizione del Cinquecento emiliano, che invitano a perdersi verso orizzonti lontani popolati di edifici immaginari, mentre improvvise tinte fredde balenano nella luce mediterranea. Simili storie immerse in paesaggi dominanti furono un genere destinato ad affermarsi sempre più nella nascente pittura barocca.
Federico Fischetti

Ippolito Scarsella

Sacra Famiglia con san Giovannino

Caratteristici del ferrarese sembrano i ritratti fisionomici dei personaggi e l’impostazione strutturale del quadretto. Il brano del paesaggio, con il cielo solcato dalle tipiche nubi ferraresi, è introdotto dalle quinte architettoniche del muretto sormontato da un ordine di doppie colonne, memore della tradizione cinquecentesca ferrarese-dossesca per la presenza di rovine, ma nel quale si legge, come in sottotraccia, il forte senso della natura proprio della tradizione lombarda, che si fa palese nella descrizione della folta vegetazione lungo il corso d’acqua nella parte destra dello sfondo.
Il paradiso perduto, per un archivio della memoria estense, Fondazione CARIFE, Pinacoteca Nazionale, 1999 p.67

Carlo Bononi


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