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Allegoria con Bacco

Il dipinto è uno dei rarissimi quadri da cavalletto di soggetto profano di Bastianino oggi noti. La gaudente figura di Bacco incoronato di fiori e spighe sembra indurre uomini e animali a imitarla. Simboli di lussuria spesso associati a Bacco sono sia la scimmia alla catena che la serva nera con il fuso infilato nel turbante. Al culto di Dioniso era associata pure la ciarliera gazza, che veniva sacrificata al dio per ricordare quanto il vino sciolga la lingua. Rimane invece oscuro il significato da attribuire ai due bambini, di cui l’uno, un piccolo gentiluomo in gorgiera, beve da un bicchiere di vetro, mentre l’altro regge un fiasco e porta sulla spalla una rete colma di sassi. La stesura pittorica nebulosa e sdutta, drammaticamente baluginante sul fondo d’ombra, e le forme espanse fino alla deformazione della anatomia sono un omaggio al genio irriverente di Dosso Dossi, mentre la ricerca di effetti umoristici attraverso l’espressività caricata dei volti e l’intento scopertamente parodistico nei confronti del mito classico, sembra richiamare la “pittura ridicola” di origine nordeuropea.
Marcello Toffanello

 

Sebastiano Filippi

Paesaggio con contadini e pastore

Questo dipinto, abbrunato da un colore terroso contrastato da chiarori giallognoli, richiama elementi tipici della fantasia paesaggistica del ferrarese Giuseppe Zola (1672-1743), nei particolari delle costruzioni, nel degradare collinoso del fondo, nell’ergersi improvviso del picco roccioso, nella cascatella in primo piano. Ma una certa monotonia e freddezza dell’insieme compositivo, opacizzato da un colore privo di ariosità, suggerisce il nome piuttosto il nome di Margherita Zola, artista in gran parte sconosciuta che sopravvisse molti anni al padre “del quale non arrivò al merito, quantunque cercasse seguirne le traccie, essendo la migliore sua cosa l’imitazione del di lui colorito”.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Margherita Zola

Paesaggio con due viandanti

Di piacevole decorativismo domestico, questi toni di piccole dimensioni sono del tutto simili nella “fattura spigliata e assai libera” ai frammenti di paesaggio di Giuseppe Zola (1672-1745), conservati in collezione Spisani a Ferrara. I soffusi chiarori azzurrognoli dello sfondo si addensano sui muri sfocati delle case e si mescolano al verde tenero della vegetazione in primo piano, componendo due paesaggi prettamente “di genere”. Le figurine poste quasi contemplazione della natura, pur in reciproco colloquio, sono tracciate in modo tanto sommario da suggerire l’esecuzione di un pennello di bottega.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Giuseppe Zola

Paesaggio con due donne

Di piacevole decorativismo domestico, questi toni di piccole dimensioni sono del tutto simili nella “fattura spigliata e assai libera” ai frammenti di paesaggio di Giuseppe Zola (1672-1745), conservati in collezione Spisani a Ferrara. I soffusi chiarori azzurrognoli dello sfondo si addensano sui muri sfocati delle case e si mescolano al verde tenero della vegetazione in primo piano, componendo due paesaggi prettamente “di genere”. Le figurine poste quasi contemplazione della natura, pur in reciproco colloquio, sono tracciate in modo tanto sommario da suggerire l’esecuzione di un pennello di bottega.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Giuseppe Zola

Madonna col bambino, San Giuseppe, San Domenico e San Carlo Borromeo

La tela, di cui non è stato possibile rintracciare la collocazione originaria, è stata riconosciuta dello Zallone su suggerimento di Francesco Arcangeli. Gli evidenti riferimenti guercineschi, ispessiti in un’atmosfera coloristica pesante e contrastata, fanno di questo dipinto un esempio significativo della produzione di quella confusa “manca diversa di apprendisti o imitatori, o inesperti zelatori del grande Guercino” tra i quali si colloca lo Zallone, il più sorprendente forse dei “nati” dal celebre maestro centese. Una certa sproporzione delle figure così isolate fra loro, nella singolarità delle attitudini e della partecipazione emotiva, evidenzia la predilezione dell’artista verso una monumentalità delle forme rudi e solenni insieme. L’umile umanità contadina di questi santi, dall’intensità semplice e modesta degli sguardi, individualmente rivolti alla Madonna con Bambino è la medesima che si ritrova nelle pale zolanesche per gli altari di San Pietro a Cento. L’Assunta con i santi Francesco e Bonaventura, e una donatrice sul terzo altare della navata destra, e la Madonna di San Luca con Sant’Antonio Abate, San Paolo, San Sebastiano e San Gregorio Magno sul quinto altare della navata sinistra della chiesa, ancora nella loro collocazione originaria, sono concordemente ricordate da tutta la letteratura locale come opere dello Zallone. Una maturità di stile più consapevole, nutrita di austerità grave e di umile verità, sembra rinsaldare le linee di questa composizione, più lontane dalle marcate tracce guercinesche del percorso giovanile dell’artista e da collocarsi intorno alla fine del secondo decennio del Seicento. Il dipinto Ragazzi, per la solida e pacata presenza del San Giuseppe, accostata alla spessa luminosità del San Domenico e alla rusticana fisionomia del San Carlo, per qualche incertezza compositiva, di rigida formazione controriformista, sembrerebbe appartenente ad un momento precedente alle Pale della chiesa di San Pietro, che segnano indiscutibilmente il punto più alto della pittura del centese.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Benedetto Zallone

Annunciazione

Sul pozzo compare uno stemma tripartito, ora malamente leggibile, riferito alternativamente alla famiglia Graziadei o ai Rondinelli e Mosti. In epoca imprecisata il dipinto è stato fatto oggetto di un pesante restauro che ne ostacola in parte la lettura. Allorché si trovava in collezione Lombardi la tela era riferita a Cosmé Tura. In seguito A. Venturi, che in un primo momento aveva caldeggiato l’attribuzione alla fase avanzata del Tura (1888), pensò ad un seguace di Francesco del Cossa assai prossimo all’autore della Madonna commissionata da Ambrogio Saraceno per San Giovanni in Monte a Bologna (1903 e 1914) e come tale essa figurò alla mostra del 1933. La dipendenza dai modi del Cossa era ribadita anche da Longhi (1934), che ne proponeva una data tra il 1485 e il 1490, svincolandola però dal bolognese Maestro di Ambrogio Saraceno.

Vicino da Ferrara

I santi Stefano e Lorenzo in adorazione della Madonna con bambino

Il dipinto è ricordato per la prima volta da Barotti in una nota a margine del manoscritto di Brisighella (sec. XVIII) nella terza cappella della navata sinistra nella chiesa di San Benedetto a Ferrara, dove venne trasferito nel 1753 dalla chiesa che i monaci Cassinesi di San Benedetto possedevano in località Caselle presso Gaiba nel Polesine estense. L’erronea lettura iconografica che in tale nota aveva spinto Barotti a individuare nei due personaggi inginocchiati i Santi Stefano e Lorenzo. Riferita Paolo Veronese sia da Barotti che da Scalabrini, mantiene tale attribuzione nelle collezioni Saroli e Lombardi, mentre Droghetti (1901) la assegna a Bastianino, attribuzione confermata dai successivi cataloghi della collezione Massari. Il dibattito critico intorno all’opera viene riaperto da Volpe (1970) che l’assegna allo Scarsellino, tesi non condivisa dalla Novelli (1984, 1990) che ritiene trattarsi di dipinto in ambito veronese mentre alla cerchia scarselliana è ricondotta dalla sottoscritta.

Ludovico Settevecchi

Ultima cena

La prima menzione di questa tela è del Brisighella (1704-35) che la segnala nel refettorio del Convento di San Guglielmo a Ferrara e la dice eseguita nel 1605. Dopo la soppressione del monastero (1832) venne acquistata dal mercante d’arte U. Sgherbi ed entrò poco dopo nella collezione Mazza. Per quanto riguarda la datazione, non vi sono prove documentarie a sostegno dell’anno proposto sa Brisighella ma il 1605 sembra comunque poter concordare con lo stile di quest’opera, che dimostra molteplici affinità con la tela di analogo soggetto, appartenuta alla collezione Zambeccari e oggi passata alla Pinacoteca di Ferrara, anche se di rispetto a quest’ultima la Cena in questione presenta alcuni parti di qualità pittorica inferiore, da spiegarsi probabilmente con l’intervento di aiuti. Da notare inoltre come il modello veneto presente sia non più Paolo Veronese ma Tintoretto e in particolare la sua Cena per San Marcuola, modello forse mediato da Agostino Carracci, che aveva nel 1596-97 realizzato per l’altar Maggiore della chiesa di San Cristoforo alla Certosa di Ferrara un piccolo rame di analogo tema.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Ippolito Scarsella

Sant’Apollonia

Sant’Agata e Sant’Apollonia. Questi quadretti sono forse da identificare con quelli citati da Brisighella come parte dell’ornato di una tela raffigurante l’Annunciazione che si trovava su un altare di una chiesa di San Romano. Brisighella ricorda “quattro quadretti lunghi dov’erano espressi li Santi Girolamo, Biagio, Agata e Apollonia i quali il moderno Vicario da levati dai muri della chiesa, ov’erano stati appesi, e se li è portati in casa”; in seguito i due in oggetto sono citati da Laderchi (1839) nella quadreria Costabili mentre negli altri due, con San Girolamo e San Biagio, non ve ne è più traccia. Dalla collezione Costabili, Sant’Agata e Sant’Apollonia sono poi passate un quella Vendeghini Baldi e da qui alla Cassa di Risparmio. Le due tele, databili secondo la Novelli alla fine del Cinquecento, sono oggi in buone condizioni di conservazione. Le Sante, che tengono ben in evidenza gli attributi del loro martirio, ci appaiono fissate in un atteggiamento devozionale ma non privo di forza espressiva.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Ippolito Scarsella

Sant’Agata

Sant’Agata e Sant’Apollonia. Questi quadretti sono forse da identificare con quelli citati da Brisighella come parte dell’ornato di una tela raffigurante l’Annunciazione che si trovava su un altare di una chiesa di San Romano. Brisighella ricorda “quattro quadretti lunghi dov’erano espressi li Santi Girolamo, Biagio, Agata e Apollonia i quali il moderno Vicario da levati dai muri della chiesa, ov’erano stati appesi, e se li è portati in casa”; in seguito i due in oggetto sono citati da Laderchi (1839) nella quadreria Costabili mentre negli altri due, con San Girolamo e San Biagio, non ve ne è più traccia. Dalla collezione Costabili, Sant’Agata e Sant’Apollonia sono poi passate un quella Vendeghini Baldi e da qui alla Cassa di Risparmio. Le due tele, databili secondo la Novelli alla fine del Cinquecento, sono oggi in buone condizioni di conservazione. Le Sante, che tengono ben in evidenza gli attributi del loro martirio, ci appaiono fissate in un atteggiamento devozionale ma non privo di forza espressiva.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Ippolito Scarsella

Rinaldo e Armida

Questo suggestivo angolo di giardino, animato da complici cupidi sospesi in mezzo alle fitte fronde di alberi immoti e dalla curiosità addocchiante dei compagni d’armi, è stato costantemente attribuito nei cataloghi della Galleria Massari al bolognese Francesco Albani (1578-1660) e ritenuto dalla scrivente opera di bottega. J. Bentini (1984) successivamente ha avanzato l’ipotesi che si tratti di un dipinto del ferrarese Maurelio Scannavini, allievo a Bologna del Cignani e prolifico copista delle opere del maestro. Affinità sono infatti riscontrabili tra l’accademico idillio amoroso di Rinaldo e Armida e le figurine che animano i soffitti delle stanze di Flora e di Iride nel Palazzo Massari a Ferrara, dipinte dall’artista in collaborazione con il quadraturista Aldovandini, intorno al nono decennio del Seicento.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Maurelio Scannavini

San Silvestro Papa

Non menzionato né da Brisighella (1704 ca.) né da Barotti (1770), il San Silvestro è ricordato per la prima volta da Cittadella (1783) nella sagrestia della chiesa delle Benedettine di San Silvestro. Nell’appendice alle Vite di Baruffaldi (1846) Boschini segnala già il dipinto nella collezione Costabili dove si trovava ancora nel 1856 tanto che Laderchi ne può sottolineare la sua derivazione dal modi dello Scarsellino. Passato nella collezione Sani dopo la dispersione della quadreria Costabili, nel 1915 è oggetto di un attento studio di Filippo De Pisis che non solo ne individua le tangenze ferraresi ma pone l’accento sull’intensa componente carraccesca e veronesiana dell’opera. “Primo pittore del tempo dopo lo Scarsellino e Bononi”, Ercoe Sarti si forma a Ferrara alla scuola di Scarsellino e Bononi. Prime opere giovanili sono la Vergine con i re magi, ricordata da Guarini nella relazione sul solenne trasporto di una Madonna miracolosa nella chiesa di Ficarolo (1611) (non più esistente), eseguita a sedici anni e la copia di una Sacra famiglia di Raffaello che secondo C. Cittadella (1793) recava la data 1612 (dispersa). Dell’elenco delle sue opere menzionate dalle fonti storiche sono noti oggi soltanto alcuni dipinti come la tela con i Santi Antonio e Carlo Borromeo a Ficarolo, Il Crocifisso adorato dai Santi Valentino e Carlo Borromeo (Salara, parrocchiale), la pala della peste (Madonna dei Santi Rocco e Sebastiano) e una teletta ex voto nella parrocchiale di Ficarolo, queste ultime eseguite in occasione della peste (1630 ca.). Il Sarti fu anche ottimo ritrattista come testimonia il poeta ferrarese suo contemporaneo Francesco Berni che , in un poemetto in versi in occasione delle nozze tra Gian Francesco Sacchetti nipote del cardinale legato e Beatrice d’Este Tassoni, loda e descrive diffusamente il ritratto della sposa eseguito dall’artista. Le poche opere oggi note rivelano un artista interessato ai valori luministici veneti (Tintoretto e Veronese) e a uno spiccato realismo introspettivo che trasforma i volti dei suoi Santi in veri e propri autoritratti. Nel San Silvestro tali componenti vengono assorbite in una materia coloristica veneto-ferrarese morbida e luminosa che accarezza la maestosa figura del Santo modellata sulle opere mature di Carlo Bononi da cui discendono sia i particolari del fluido panneggio della bianca tonaca, sia quello sfumature a chiaro-scuro che conferiscono alla figura del Santo un tono di larvata melanconia. L’intesa componente bononiana unita al ricordo del rigore controriformato di Ludovico Carracci e gli espliciti rimandi alle suggestioni luministiche neo-veronesiane, inducono a collocare l’opera la fine del terzo decennio del secolo in un momento di piena maturità dell’artista.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Ercole Sarti

Due ritratti di profilo

Nel catalogo del Barbantini la tavola era assegnata a Jacopo Bassano, attribuzione seguita nel catalogo delle collezioni della Cassa di risparmio nel 1984. Francesco Arcangeli aveva a suo tempo attribuito l’opera al Bastianino rilevando la spaccatura al centro della tavola e ipotizzando con ciò che potesse trattarsi di due frammenti di tavole giustapposte. Dato l’esiguo spessore del supporto, esse avrebbero potuto fare parte di pradelle o di laterali ancona, databili per l’esecuzione alla prima maturità dell’artista ferrarese. La fisionomia dei volti pare però rispondere a prima vista a modelli veneti, più esattamente bassaneschi, messi in evidenza da B. Giovannucci Vigi (1984). Assai dubbia appare invece la conduzione pittorica, poverissima di preparazione, stesa a pennellate fitte e sottili, piuttosto secche di materia. Uno stresso parallelismo può essere istituito con i due ritratti dei coniugi Ariosto dipinti da Camillo Ricci congiuntamente alla Pala della Madonna di Reggio: identici il tratteggio che definisce i capelli e la barba, la pennellata piuttosto arida nella definizione delle rughe dei volti, il segno calligrafico che delimita i colletti.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Camillo Ricci

Presentazione di Gesù al tempio

Il Vangelo di Luca narra che trentatré giorni dopo la nascita, Gesù fu portato al tempio in ossequio alla legge ebraica che imponeva il riscatto, attraverso il pagamento di cinque sicli d’argento, dal sacrificio a Dio di ogni primogenito di uomo. Nella liturgia cristiana l’episodio è promozione del sacrificio di Cristo necessario per riscattare l’umanità e diffondere la luce della salvezza. Nel Cinquecento il tema ssume una nuova importanza: non più relegato alla dimensione minore della predella, episodio fra i tanti della vita di Gesù o della Madonna, spesso assurge alla dignità della pala d’altare, riflettendo ulteriormente significati, forse connessi alla necessità della Chiesa di ribadire un ruolo centrale rispetto alle spinte riformistiche cattoliche e protestanti. Si vuole probabilmente sottolineare come lo stesso Gesù, portatore della nuova legge, si sottometta alla autorità del tempio e parimenti la Madonna, benché immune dal peccato, accetti il rito della “purificazione della puerpera” che richiedeva il sacrificio di due colombe. La versione ferrarese, che ha le dimensioni del sottoquadro, segue una impostazione iconografica abbastanza diffusa e significativa consistente nella centralità prospettica e architettonica dell’aula templare e nel ripetersi di alcuni elementi secondo una precisa disposizione: Gesù, viene offerto dalla madre all’altare, altare che è mensa sacrificale e prefigurazione del percorso di Cristo. Il bimbo è accolto tra le braccia del sommo sacerdote vestito con i paramenti del suo rango, uomo pio e giusto e consapevole del destino di dolore e di salvezza di Gesù, probabilmente personificazione delle gerarchie ecclesiastiche. Sulla scena risplende la luce della lampada simbolo di Cristo, luce di salvezza. Dal punto di vista stilistico l’opera è stata ricondotta al manierismo bolognese (Cerini, Venturini) con una attribuzione a Orazio Samacchini, artista però di cultura più complessa e di qualità pittorica più raffinata di quelle esibite. Jadranka Bentini (1984) ipotizza l’esecuzione di Ercole Procaccini e Berenice Giovannucci Vigi (1984) assegna la tela a un “Manierista bolognese della seconda metà del Cinquecento”, pur istituendo un pertinente confronto con la Presentazione al Tempio in Sant’Isaia a Bologna, dipinto che Daniele Benati (1986) riconduce decisamente “entro il primo percorso di Ercole non senza un rapporto con Biagio Pupini nella figura del concelebrante a sinistra”. Una data ancora entro la prima metà del secolo appare pertinente per le due Presentazioni, diligenti animazioni del classicismo bolognese di primo Cinquecento, entrambe impostate sull’usuale simmetria compositiva e dove l ritmico disporsi degli astanti è moderatamente variato da contrappunti di gesti e di pose.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Testa di San Paolo

La fortuna critica di questa teletta raffigurante la testa di San Paolo, riconoscibile dall’elsa della spada sulla destra, ripete sostanzialmente quella del San Pietro. Tuttavia, se per quest’ultimo il legame con la pittura veneta del Settecento – anche se non propriamente col Nogari al quale in passato entrambe le tele sono state riferite – e complessivamente plausibile, nel caso di questo San Paolo il discorso appare un pò diverso. Supporto e materia sono infatti alquanto differenti. La materia levigata e i caratteri stilistici del dipinto in esame inducono ad orientarlo verso la Lombardia piuttosto che il Veneto, o comunque all’interno della cultura non peculiarmente lagunare, ma semmai, dell’entroterra veneto. Può in tal modo giustificarsi quel ricordo di tardo caravaggismo lombardo che pare di intravedere in questa tela.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Pittore veneto-lombardo

Testa di San Pietro

L’attribuzione tradizionale a Giuseppe Nogari per questa tela come per quella col San Paolo, da sempre ritenute della stessa mano, si ricollega probabilmente al fatto che il pittore veneziano pur non essendo propriamente ritrattista, era solito dipingere “figure di carattere”, soprattutto vecchi e fanciulli. Si è voluto dunque far rientrare queste due teste all’interno di quel genere pittorico senza considerare la possibilità che le piccole tele potessero essere in origine parte di una composizione più ampia, anzi di due differenti opere. Il San Pietro in esame, riconoscibile dalla chiave che ha in mano, e attribuito dal Cerini (1971) ad Annibale Carracci, mostra infatti un tratto pittorico soffice e sfumato, decisamente diverso da quello del San Paolo. Quindi pur essendo il San Pietro ricollegabile alla cultura figurativa veneta del Settecento, è azzardato confermare, in attesa di prove più convincenti, la paternità del Nogari che solitamente mostra delle qualità stilistiche considerevoli, di aspirazione rembrentiana: tali non si riscontrano con la stessa intensità in questa pur interessante tela.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Pittore veneto

Ritratto di gentiluomo

Negli inventari precedenti all’ingresso nelle collezioni della Cassa di Risparmio compare sempre attribuito ad Agostino Carracci; l’unica eccezione è un recente riferimento a Lionello Spada (Bentini 1982). L’impaginazione del ritratto con la testa dell’uomo che emerge lievemente voltata verso lo spettatore, sottolineata dall’ampia gorgiera bianca “incannucciata”, il tono di affettuosa bonarietà e l’instantaneità della posa sono elementi che lo apparentano fin troppo genericamente con dipinti di ambito carracesco. Il rimando più preciso ad Agostino Carracci è accolto dalla Giovannucci Vigi (1984) che lo avvicina, per affinità fisioniomiche, alla testa d’uomo all’estrema destra della Composizione con figure animali di Capodimonte. Il soggetto del dipinto napoletano, datato tra 1598 e 1600, è stato recentemente identificato con un Triplo ritratto di Arrigo peloso, Amon nano e Pietro matto e quest’ultimo, buffone o valletto alla corte romana dal cardinale Odoardo Farnese, sarebbe, appunto,il personaggio effigiato all’estrema destra del dipinto (Zapperi 1985). Tale riconoscimento ed il carattere di più marcata grossolanità dei tratti del volto della tela napoletana portano ad escludere l’identità dei due personaggi. Del resto, secondo un parere Federico Zeri, sarebbe da riconsiderare la stessa attribuzione carraccesca, orientando invece la ricerca verso l’ambito fiammmingo. Tuttavia la genericità dell’impostazione, la mancanza di ogni dato documentario e la ridipintura a velatura di gran parte della tela, evidenziata da recenti analisi, rendono problematica una più precisa individuazione.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Pittore fiammingo