Sacra famiglia con San Giovannino

Se la qualità della stesura pittorica, alquanto impoverita, è inafferrabile ( ma si veda a questo punto Giovannucci Vigi 1984), da punto di vista macrostrutturale la tavola appare intessuta di ben evidenti motivi tizianeschi: i casolari sullo sfondo coi tipici tetti a spiovente, il San Giovannino che abbraccia l’agnello, la morfologia della frasca e dei panneggi. Jadranka Bentini (1984) segnala che al Kunst-museum i Berna è conservata un’altra tavola di soggetto e composizione quasi identici attribuita al pittore veneto intorno al 1550 vicino ai modi di Bonifazio Veronese (Natale 1978). L’esistenza di due tavole così simili fa supporre la derivazione da un archetipo tizianesco, riproposto dalla bottega nell’ambito di pittori come Francesco Vecellio (Bentini 1984) del quale si veda un opportuno confronto la Madonna col Bambino e il San Gioovannino del Museo di Castelvecchio di Verona. Nella tavola ferrarese il tono dimesso del gruppo sacro (benché accentuato dalla pulitura) suggerisce come modelli opere eseguite da Tiziano verso la fine degli anni Venti (Madonna col Bambino, San Giovanni e Santa Caterina, Londra, National Gallery; Madonna del Consiglio, Parigi, Louvre; in particolare Madonna col Bambino, San Giovannino e Sant’Antonio Abate, Firenze, Uffizi), dove è attenuata la compiaciuta, fastosa, esibita bellezza materiale in favore di un impatto visivo sommesso, non privo di accenti domestici, che favorisce più intimi e spirituali colloqui.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Pittore Veneto ambito di Francesco Vecellio

Madonna con bambino tra i santi Sebastiano e Rocco

Attribuito a scuola veneziana da Barbantini e da Bortignoni, fu riferito da Volpe ad artista Veneto Ferrarese, 1510 ca., mentre la perizia Gnudi-Riccomini proponeva un pittore affine a Panetti. La Fioravanti Baraldi ripropone la dicitura “veneto-ferrarese”attenuata da punto interrogativo. In una lettera (10-1-1984), il cui contenuto è riportato dalla Fioravanti Baraldi, Zeri esclude che di ferrarese o di veneto si tratti e propende per un’ipotesi attributiva emiliana, forse bolognese per “un certo qual riflesso di Francesco Francia”. Zeri ipotizza si tratti di un frammento, e con ragione, se si considera come risulti tagliato ai fianchi il corpo del Bambino. Ribadita dunque l’estraneità di questo dipinto alla cultura ferrarese, si è propensi a riconoscere nel tipo della Vergine, dall’ovale tornito e liscio, qualche riflesso della pittura di Cima da Conegliano, magari con riferimento alla attività parmense. Per questa via prenderebbe forma l’ipotesi che l’anonimo pittore possa rientrare nell’orbita culturale di Filippo Mazzola (si veda infatti il tipo del San Rocco, dal viso allungato, tipologicamente più affine al più antico Cristo Benedicente di Poznan). Utili connessioni si sono rintracciate nell’attività del raro Josafat Araldi, noto quasi esclusivamente per il San Sebastiano della Pinacoteca di Parma, la cui fisionomia sembra apparentarsi con quella della Vergine del quadro in esame. Più generici riscontri sono stati possibili invece in area romagnola, con riferimento alle opere di Rondinelli o Palmezzano, benché in un primo tempo questa fosse sembrata l’area culturale di più stretta affinità.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Pittore emiliano

Gesù bambino dormiente

I dipinto, tradizionalmente attribuito a Elisabetta Sirani (Bologna 1638-1665), è stato giustamente riferito a scuola per il fare pittorico debole e incerto (Giovannucci Vigi 1984). Il soggetto pare una rielaborazione da vari modelli di Guido Reni. Uno dei più prossimi è il bambino dormiente, attualmente a Bologna, collezione Lauro (Pepper 1988); rispetto al prototipo reniano la crocetta aggiunta nella mano del bambino ha l’intento di trasformare il soggetto pagano nel tema cristiano della precognizione della Passione. Anche le gambe sono variate, non più distese ma con la sinistra ripiegata sotto l’altra in una posa assai simile ad altri esempi reniani di Cupido dormiente (il più vicino è il Cupido addormentato, ora a New York, collezione privata; Pepper 1988). Che il soggetto dell’Amorino o Bambino dormiente tratto dal repertorio classico riportasse grande successo per il tono intimo e affettuoso della composizione è provato dalla diffusione, sempre in ambito reniano, di varie incisioni dello stesso tema. Una replica in tela, probabilmente della medesima mano dell’esemplare ferrarese, è stata identificata (Giovannucci Vigi 1984) nella Galleria degli Uffizi con uguale attribuzione a scuola della Sirani.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Pittore Bolognese

San Girolamo

La tela raffigura il San Girolamo penitente a tre quarti di figura, coperto parzialmente da un mantello e seduto; appoggia il gomito sinistro su un tavolo sul quale ci sono un libro aperto e un calamaio; con la destra regge il teschio. Il paesaggio dello sfondo è in parte coperto da un tendaggio. Si tratta di una replica di un soggetto iconografico molto diffuso in ambito emiliano, reniano e post-reniano soprattutto. Difficoltosa appare però una proposta attributiva precisa perché il dipinto, databile alla metà del XVII secolo, mostra una fattura piuttosto discontinua. Federico Zeni fornisce un’ulteriore indicazione superando cautamente il nome di Girolamo Troppa, attivo anche per Ferrara nel 1668, allorché inviò a Roma le due tele on le Storie di Santa Tecla alla chiesa de San Giuseppe, tuttora esistenti in loco. Per restare in ambito ferrarese un altro artista a cui fare riferimento potrebbe essere Giuseppe Avanzi, che nel 1680 completa il ciclo iniziato dal Troppa. Sono note altre copie, oltre a questa, dell’originale tuttora sconosciuto: quella della Galleria Sabauda di Torino, con l’attribuzione al Badalocchio e ricondotta da Pepper al catalogo di Guido Reni; quella mediocre del Collegio Alberoni di Piacenza; e infine un’altra versione appartenente alla Pinacoteca di Ravenna.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Pittore del XVII secolo

La Madonna in trono col Bambino e i Santi Antonio abate, Giobbe, Vito e Pietro martire

Circondata più tardi da episodi della vita di San Giobbe, dipinti dallo Scarsellino e andati perduti, questa tavola è la più precoce opera firmata e datata dell’artista, fondamentale per la ricostruzione della sua attività matura, quando evidenzierà la componente culturale costesca e garofalesca, stemperata in un pacato classicismo. L’acceso cromatismo, impreziosito da un raffinato gusto decorativo esalta l’arcaica simmetria della composizione che arretra il trono della Vergine sulla trascolorata vastità di un panorama collinoso, non più astratta nitidezza di cielo della Madonna con Bambino di Hannover, ma preludio al naturalistico ed animato paesaggio padano della Vergine in trono nel Museo della cattedrale di Ferrara. Se la tipologia della Madonna, come è stato sottolineato, evidenzia inevitabili rapporti di Panetti con Boccaccino, nel momento della collaborazione per gli affreschi dell’oratorio della Concezione, tra il 1497 e il 1500, la pala San Giobbe condensa suggestioni veneziane ed umori umbro-costeschi, riassume suggerimenti garofaleschi e antica tradizione robertiana, in un nuovo comporsi di devot e serena maestosità. Un particolare curioso riguarda la storia conservativa di questa tavola: solo il più recente restauro ha rimesso in evidenza gli attributi del Santo Pietro Martire, vale a dire il pugnale e l’accetta coperti da un antico intervento.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Domenico Panetti

Due guerrieri

Attribuiti a Giorgione nei cataloghi della collezione Saroli (n.81), poi Lombardi (n.20), e anche nel catalogo della Galleria Massari Zavaglia del 1901 (n.150), i due pannelli vengono successivamente ritenuti di “Scuola napoletana del sec. XVIII” da Barbantini e da Bortignoni. Mella redazione dattiloscritta del 1960 dell’elenco dei quadri Massari Zavaglia, Cesare Gnudi propone, con immediata credibilità, l’attribuzione di questi due “bravi” al Muttoni. Nonostante la sttesura veloce e bozzattistica delle telette, probabili ritagli di una composizione maggiore, che ha suggerito alla Fioravanti Baraldi il nome del Ferrarese Giuseppe Caletti, queste figure di soldati dai berrettoni piumati bene rientrano nella tradizione di un Muttoni “imitatore di Giorgione” e convincentemente si accostano alle generiche figure di guerrieri nella Crocifissione, dipinta da Della Vecchia nel 1637 per la chiesa Ognissanti a Venezia (oggi Fondazione Cini), in cui l’artista veneziano evidenzia come fare grandioso il proprio gusto per l’inventario di genere, ripresa dalla più giovanile Crocifissione (1633) di San Lio, sempre a Venezia. La stesura compositiva di queste immagini appare un poco rigida e stereotipata, in un colorismo privo di passaggi tonali, da fare ritenere che il dipinto, a cui questi due soldati probabilmente in origine appartenevano, debba collocarsi nell’ultimo decennio dell’attività di Muttoni.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Pietro Muttoni

Lanzichenecco

Il dipinto, fin dal catalogo della Galleria Massari Zavaglia redatto nel 1901, è stato attribuito a Pitro Muttoni, detto Della Vecchia per la sua abilità, secondo il Melchiorri, di imitare e restaurare antiche pitture. Un acceso pittoricismo ed una luminosità diffusa, che ha il suo fulcro nei bagliori della corazza, dilaga con passaggi tonali sulla superficie di questa immagine, di chiara derivazione giorgionesca. La sensuale malinconia del soldato mercenario, dall’espressione patetica e quasi stralunata, è sottolineata dalla particolare inclinazione della testa calzata da un bigliettone piumato, come si vede sul capo di tanti guerrieri del Muttoni, in particolare ne Il chiromante i collezione privata bergamasca e nell’Uomo che sguaina la spada di Vienna e di Venezia. Negli anni intorno al 1640 l’artista veneziano, con fare asciutto e bizzarro, con intento espressionistico e con generico neogiorgionismo. “viene realizzato teste di bravi, soldati, David con la testa di Golia, coppie di amanti, paggi dai cappelli piumati: un repertorio ripetuto alla sazietà (Pallucchini), nel quale ben s’inserisce questo lanzichenecco, in cui la materia pittorica si sfalda nella lanosità delle barbe e dei capelli, asciugandosi invece a contatto della metallica consistenza dell’armatura.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Pietro Muttoni

Ritratto di Famiglia

Conservata fino al 1901 presso i conti Tiepolo Milan Massari di Vicenza, l’opera fu venduta insieme ad altre tredici al duca Galeazzo Massari di Ferrara, imparentato con la famiglia vicentina;;Il dipinto, di notevole qualità, firmato e datato 1801 da François Guillame Ménageot, è stato reso noto dalla Venturini (1979-80). Raffigura un ritratto i famiglia in un interno borghese. Conservata fino al 1901 presso i conti Tiepolo Milan Massari di Vicenza, l’opera fu venduta insieme ad altre tredici al duca Galeazzo Massari di Ferrara, imparentato con la famiglia vicentina. La Venturini (1979-80 e 1984) ha supposto che il ritratto raffiguri i componenti del ramo veneto dei Massari, ma non esistono per ora prove sicure che attestino tale ipotesi. L’opera fu eseguita nel soggiorno vicentino di questo artista ingiustamente trascurato, tuttavia prima dell’11 maggio 1801, data in cui è documentata la partenza del pittore per Parigi, dove insegno presso le scuole nazionali di pittura e scultura; ebbe poi la nomina di cavalier della Legion d’onore e quindi l’incarico di costumista dell’Opera, impegno che lo tenne occupato fino alla morte avvenuta nel 1816. Il Ménageot ha raffigurato questa famiglia con una purezza neoclassica che rimanda agli esempi francesi di David presso la cui scuola di pittura aveva ricevuto la prima formazione.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

François-Guillaume Ménageot

Il crociffisso con i dolenti e i Santi Antonio Abate e Stefano

I tre affreschi ora ricomposti a tritico, si trovano nelle pareti laterali e in quella in fondo di una nicchia decorata con eleganti colonnine tortili destinata verosimilmente a fungere da altare privato. In fase di strappo si verificò una estesa perdita di superficie pittorica in corrispondenza della testa e del busto di Cristo, che è stata quindi malamente reintegrata. In seguito, nel corso di ulteriori lavori all’interno dell’edificio (1973), sono stati recuperati anche la dinopia e un “doppio” dello strappo, donati nel 1979 al Comune di Ferrara (Museo di Schifanoia). Dopo essere stato riferito in passato all’Alberti, l’affresco venne pubblicato da Padovani (1974) come opera del Maestro di Casa Pendaglia, un’opinione che era già stata espressa in sede privata da Bergellesi (1969) e poi da Arcangeli (1972). Di questo artista esso rappresenta il grado di produzione al livello più modesto, ad una data che si inoltra probabilmente negli anni Quaranta del Quattrocento. I modelli aulici che hanno presieduto alla sua formazione sono in parte ancora ravvisabili, ad esempio nell’andamento destinato degli abbondanti panneggi e nell’esasperata intenzione patetica delle fisionomie. Ma la fattura minuta e calligrafica, consonante con quella delle opere tarde del Maestro del Trittico di Imola indica una data che si approssima forse ala metà del secolo.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Maestro di casa Pendaglia

La Madonna dell’Umiltà

L’ottimo stato di conservazione presenta una frattura molto accurata sia nella bulinatura del fondo sia nell’uso delle velature a lacca che danno consistenza alla corona, ricavata sullo stesso fondo d’oro, e che, con diversi spessori, realizzano delle pieghe del manto della Vergine. Le capacità di trarre il massimo risultato dai materiali a disposizione emerge poi dalla resa del cuscino damascato e dalle erbe del prato. Il dipinto ha una vicenda critica tortuosa, che lo vede assegnare un collezione Lombardi a Cimabue, poi da Droghetti (1901) a Duccio e da Barbantini (1910) alla maniera greca. La sua estrazione ferrarese venne viceversa riconosciuta da Volpe, che nel 1970, in una catalogazione manoscritta della raccolta Massari ne propose un’attribuzione ad Antonio Alberti. Spetta a Padovani (1976) l’averne ricondotta l’esecuzione entro un gruppo stilistico assai omogeneo che prende il nome da un trittico con la Madonna col Bambino tra i Santo Caterina e Pietro Martire, già nel duomo di Imola ed ora nella Pinacoteca di quella città, ed entro il quale sono confluiti numerosi dipinti di soggetto sacro, per lo più riferiti in precedenza allo stesso Antonio Alberti. Importanti affreschi provenienti da Ferrara, della cui esistenza ha dato notizia Zeri (in Vignola 1988), testimoniano dell’attività di questo anonimo artista per la capitale estense. So tratta di un maestro caratterizzato da una attenta e preziosa cura esecutiva, più che di linguaggio, che sintetizza, riconducendole ad un minimo ( ma non banale) denominatore comune, le esperienze in atto nella cultura ferrarese. Nelle opere più antiche, come la Madonna qui esaminata, la cui esecuzione sembrerebbe cadere negli inoltrati anni Venti, egli sembra infatti dipendere dallo stile maturo del Maestro G.Z. (Madonna di Pietro de’ Lardi e affreschi nella cappella di San Martino nella Sagra di Carpi), mostrandosi anche al corrente, nei ritagli festonati del manto, dei modi di Giovanni da Modena e della cultura veneto-adriatica che fa capo a Gentile da Fabbriano. Per le prerogative di irreprensibile cura esecutiva, altre che di adesione agli schemi ben consolidati dalla tradizione, egli dovette incontrare di fatto il favore di una committenza di gusto conservatore ma di auliche pretese, per la quale risulta attivo, in prodotti di elegante confezione per lo più di piccole dimensioni, fin verso il 1450.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Maestro Trittico

Quattro santi e un offerente

Oltre al Santo in abiti regali non identificabile a causa della decurtazione della tavola, vi figurano i Santi Francesco, Giacomo maggiore e Antonio abate. Il primo santo a sinistra emerse da sotto una ridipintura in seguito al restauro eseguito in occasione della mostra dedicata al Trecento bolognese (bologna 1950), alla quale il dipinto figurò con n. 108. Le osservazioni compiute nel corso del restauro di recente condotto sulla pietà già nella stessa raccolta ed ora in Pinacoteca hanno confermato l’ipotesi più volte espressa (Barbantini 1918; Padovani 1974) circa la provenienza di entrambi i dipinti da un’unica tavola, che comprendeva probabilmente altre raffigurazioni e la cui originaria conformazione rimane peraltro difficile da immaginare. Già riferito a Giotto quando di trovava nella collezione Lombardi, il dipinto venne studiato dopo il suo passaggio in collezione Saroli da Barbantini (1918), propenso ad associargli la Pietà allora conservata nella stessa raccolta e ad ipotizzare per entrambe le tavole una provenienza dal convento di Sant’Antonio in Polesine, sulla base della presenza del Santo omonimo e di una devota in abiti monacali. In seguito figurò alla Mostra del Rinascimento ferrarese (1933) come opera di un “Ferrarese verso il 1440”.

Maestro della Pietà Massari

Venere e Vulcano

I due episodi mitologici (Diana e Endimione e Venere e Vulcano), così comuni alla pittura del XVIII secolo, narrano, con fare sciolto e corposo e con rinnovato classicismo, i Diana che veglia con Amore il sonno di Endimione e di Venere che ordina a Vulcano le armi per Enea. L’intenso colorismo veneto, impastato di chiaroscurato naturalismo, sottolinea i molti elementi derivanti dalla consuetudine dell’artista, verosimilmente ipotizzabile in Nicola Grassi, con le opere di Sebastiano Ricci e del Pellegrini. Queste tele sono probabilmente ascrivibili agli anni intorno al 1720, all’attività matura quindi del grassi, per quei medesimi caratteri morfologici, addolciti da subitanei chiarori argentei, “in un’atmosfera calda e rubea”, che si vedono nella Rebecca al pozzo della chiesa di San Francesco della Vigna a Venezia e in Lot con le figlie dei Civici Musei di Udine. Uno stesso gusto dei bianchi densi e leggeri sulle epidermidi tenere e pallide, accomuna le figure femminili in atteggiamenti molli e gentili. Queste due tele Massari in tutti i cataloghi della Galleria venivano attribuite a Gaetano Gandolfi.;a cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Nicola Grassi

Diana e Endimione

I due episodi mitologici (Diana e Endimione e Venere e Vulcano), così comuni alla pittura del XVIII secolo, narrano, con fare sciolto e corposo e con rinnovato classicismo, i Diana che veglia con Amore il sonno di Endimione e di Venere che ordina a Vulcano le armi per Enea. L’intenso colorismo veneto, impastato di chiaroscurato naturalismo, sottolinea i molti elementi derivanti dalla consuetudine dell’artista, verosimilmente ipotizzabile in Nicola Grassi, con le opere di Sebastiano Ricci e del Pellegrini. Queste tele sono probabilmente ascrivibili agli anni intorno al 1720, all’attività matura quindi del grassi, per quei medesimi caratteri morfologici, addolciti da subitanei chiarori argentei, “in un’atmosfera calda e rubea”, che si vedono nella Rebecca al pozzo della chiesa di San Francesco della Vigna a Venezia e in Lot con le figlie dei Civici Musei di Udine. Uno stesso gusto dei bianchi densi e leggeri sulle epidermidi tenere e pallide, accomuna le figure femminili in atteggiamenti molli e gentili. Queste due tele Massari in tutti i cataloghi della Galleria venivano attribuite a Gaetano Gandolfi.;a cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Nicola Grassi


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