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Insieme ad altri quattordici tondi esposti in Pinacoteca, e ad altri cinque in raccolte private, il San Giorgio era parte di un ciclo decorativo per il refettorio dell’omonimo convento degli Olivetani. Con le soppressioni napoleoniche il complesso fu acquistato dalla potente famiglia dei Massari e gli affreschi, ridotti alle sole sacre figure, furono strappati, distruggendo così l’integrità dell’insieme e i motivi vegetali che dovevano unire i diversi personaggi. Giorgio Vasari nelle sue Vite (1568) sostiene che Girolamo da Carpi lasciò incompiuto il ciclo, che sarebbe stato ultimato da un altro artista. La critica moderna ritiene che
gli affreschi siano frutto della collaborazione fra il Sellari e la bottega di Garofalo, tra il 1530 e il 1550. Il San Giorgio è l’unica tra le quindici sezioni a non essere stata ridotta a forma circolare, conservando l’effetto di sfondamento illusionistico dato dal braccio con la lancia e dall’elmo che escono dallo spazio abitato dal santo.
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Il dipinto proveniente dalla collezione Ughi, è attribuito unanimemente nei cataloghi della collezione Massari (in cui entra prima del 1901) a Garofalo. Nella scheda del dipinto redatta per il volume delle collezioni d’arte della Cassa fi Risparmio di Ferrara (1984), chi scrive la ritenne autografa e , collocandola nel periodo giovanile dell’artista, ne sottolineava la derivazione dai modi naturalistici e protoclassistici di Boccaccio Boccaccino, artista cremonese che con la propria esperienza a Ferrara nel 1499 ebbe modo di incidere in maniera determinante sulla svolta classicistica di Garofalo. Ad una più attenta indagine, il dipinto presenta cadute di tono qualitativo nell’impaccio del disegno pittorico e nell’accademica espressività del volto di Cristo tanto che, se confrontato con il Redentore del Museo di Budapest, caratterizzato da uno sfumato sapiente e da un modellato morbido e sentimentale tipico del naturalismo “classicista” di Garofalo giovane, il dipinto ferrarese evidenzia, pur nelle strette analogie iconografiche, un forte divario linguistico da far sorgere non pochi dubbi sulla sua autografia.;a cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.
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Tipica produzione, parallela alle pale d’altare, dei figli di Francesco Francia, che lavoravano in coppia firmando spesso le loro opere maggiori I.I FRANCIA cioè Iacobus e Iulius Francia. La tavoletta raffigura il matrimonio mistico di Santa Caterina: la Madonna, con lo sguardo rivolto verso lo spettatore, sorregge, seduto su un cuscino, il Bambino Gesù che sta infilando l’anello nel dito della Santa Caterina posta sulla sinistra della composizione; a destra in secondo piano, è san Giuseppe. Questo tema iconografico è molto diffuso nella pittura bolognese, soprattutto tra i seguaci del Francesco Francia: non solo i suoi figli, ma anche Innocenzo da Imola e Bartolomeo Bagnacavallo. Il fenomeno si può spiegare probabilmente come una conseguenza del riconoscimento ufficiale, avvenuto nel 1524, della devozione verso la Santa per eccellenza di Bologna, Caterina Vigri. La diffusione di tavolette devozionali destinate perlopiù ad una committenza privata e raffiguranti “Matrimoni mistici di Santa Caterina” è dunque presumibilmente da ricollegare a quel clima devozionale cinquecentesco bolognese che tendeva ad esaltare la comunione spirituale e l’unione mistica col Signore, come Santa Caterina da Bologna. Il dipinto porta la tradizionale attribuzione a Giulio Francia, tuttavia ciò non si può confermare in quanto è totalmente sconosciuta l’attività dell’artista indipendentemente dal fratello maggiore. Inoltre è indicativo il confronto con un’opera firmata e datata 1544 dal solo Giacomo Francia ( Giulio morì poco dopo quella data, nel gennaio 1545): la Madonna in trono col Bambino, angeli e Santi ora nella chiesa di Santa Maria di Piazza a Busto Arsizio (deposito della Pinacoteca di Brera) ma dipinta per la chiesa bolognese dei Santi Gervasio e Protasio. In prossimità di quella pala, in cui Giacomo recupera uno schema compositivo ormai arcaico, legato al ricordo delle opere indimenticabili del padre, va collocata anche questa tavoletta, per evidenti confronti stilistici. ;a cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.
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Il dipinto, raffigura la Madonna con in braccio Gesù Bambino che gioca con San Gioovannino, è sempre stato legato al nome di Francesco Raibolini detto il Francia, anche se va più verosimilmente ricondotto alla mano di un artista emiliano che si accosta alla cultura classicista bolognese di Costa e Francia imitando le composizioni di carattere devozionale privato prodotte, con successo e in gran quantità, dal Francia e dalla sua bottega. La tavola mostra una materia smaltata e un segno piuttosto rigido, le carni sembrano quasi di porcellana: schematicamente si può ricondurre, ma in controparte, al dipinto con lo stesso soggetto conservato nella Galleria Nazionale di Parma, opera di Giacomo Francia, figlio di Francesco, eseguita nella bottega paterna attorno ai primi anni del secondo decennio del secolo: tale data si adatta bene anche all’opera in questione.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.
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Il San Francesco di Paola protagonista di questa bella tela è raffigurato con gli occhi rivolti al cielo: ha tra le mani la corona del rosario; nell’angolo in alto a sinistra si legge il suo motto CHARITAS. È una tipica raffigurazione piazzettesca, discendente dal classico esempio della chiesa veneziana della Fava, commissionato al maestro nel 1724 e saldato nel 1727, raffigurante la Vergine che appare a San Filippo Neri: la mistica figura di San Filippo, caratterizzato allo stesso tempo da una espressività caricata, è stata ripresa nelle vesti di una serie di altri Santi di dal Piazzetta che dai suoi allievi collaboratori. Un san Francesco da Paola molto simile a quello oggetto di questa scheda è documentato da una incisione del Pitteri. Tuttavia, nonostante la tradizionale attribuzione al Piazzatta per questa tela di grande qualità, l’intensa figura del plasticismo robusto e fortemente contrastato rivela un modo più analitico e studiato di indagine pittorica che fa pensare piuttosto all’esecuzione di un artista molto vicino al maestro. Un confronto convincente è il Miracolo di San Francesco di Paola (ora nel museo diocesano di Cortona), prima opera documentata e collocata nella chiesa di San Filippo da Cortona nel 1750 da Francesco Capella detto Daggiù. Questi entrato molto giovane nella bottega del Piazzetta, vi rimase come collaboratore fino alla morte del maestro, avenuta nel 1754, ma assumendo allo stesso tempo numerosi incarichi indipendenti. Nell’opera cortonese del Daggiù riecheggiano parziali reminescenze dei moduli piazzetteschi nella tela venezian della Fava, ma con le caratteristiche stilistiche e tipologiche delle opere dell’allievo, che si distinguono per l’intonazione intensamente patetica e per il drammatico e visionario luminismo che lo mettono in rapporto con il Bencovich e col Tiepolo giovane. Come giustamente ha spiegato Ruggeri (1977) l’artista è interessato non tanto alla sintesi plastico spaziale del tardo Piazzetta “quanto ad un dirompimento di tele nesso attraverso l’adozione di vettori spaziali e compositivi dinamicamente sottolineati dai percorsi di luce, in senso fortemente astrattivo e irrealistico”. La tela in esame è una conferma della qualità del Capella in parallelo svolgimento col linguaggio del maestro, ed è databile ancora all’interno dell'”impresa Piazzetta”, poco dopo il dipinto cortonese. Per ulteriori confronti si vedano le figure barbate dell’artista, significativo è il vecchio cieco del più tardo (appartenente al periodo bergamasco) Ritratto di famiglia di Bergamo, collezione privata.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.
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La pietà raffigura al centro il Cristo deposto dalla croce tra le braccia della Madre; a sinistra San Francesco, riconoscibile dalle stigmate nelle mani e nel costato, e Maria Maddalena con le braccia alzate in gesto di dolore; a destra San Giovanni Evangelista, già consapevole “di quello posto da Raffaello alla sinistra della Madonna Ansidei”, e sant’Antonio da Padova che tiene tra le sue una mano di Cristo. La lunetta sormontava la pala con La Madonna e il Bambino in trono fra un santo guerriero e San Giovanni Battista, più nota come Pala Strozzi, ora conservata a Londra, National Gallery; il Santo guerriero è stato sempre considerato Guglielmo d’Aquitania, legato al culto benedettino e non francescano come era l’edificio destinato ad ospitare l’opera, e quindi difficilmente riconducibile alla figura armata con la spada a sinistra del trono: purtroppo mancano elementi iconografici per l’esatta identificazione di questo Santo che potrebbe essere anche San Giorgio, spesso raffigurato con la sola spada, o San Longino, direttamente collegato al tema della crocefissione ( la cui scena successiva è raffigurata nella lunetta con la Pietà), essendo il soldato romano che diede il colpo di lancia a Gesù (Giovanni, 19, 34). Longino è anche ritenuto il centurione che, secondo glialtri tre Vangeli, esclamò: “veramente quest’uomo era figlio di Dio!”. Insieme alla pala la lunetta fu nell’oratorio di Santa Maria della Concezione o della Scala, presso la chiesa di San Francesco di Ferrara, prima di passare nel 1772, in seguito alla soppressione dell’oratorio, al locale ospedale degli Esposti. Nel 1840 la pala fu spostata nell’adiacente oratorio di San Cristoforo per poi essere acquistata dalla famiglia Strozzi (1859) presso cui fu vista da Gaetano Giordani (ms. B. 1821) nel 1860, e quindi ceduta alla National Gallery nel 1881; da quella raccolta, è passata prima nella collezione lombardi, poi Massari, sempre a Ferrara; è stata infine rilevata dalla locale Cassa di Risparmio (1961). Piuttosto discusso è il problema attributivo della lunetta, collegato strettamente a quello della Pala Strozzi.
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Probabile frammento di una tavola di più ampie dimensioni, ill dipinto è stato considerato da Silla Zamboni ( 1975) uno degli esiti più felici della pittura ferrarese di primo Cinquecento, da inserirsi in quella vasta produzione di opere devozionali, aderente al clima di decadente religiosità preriformata, Favorito da Ercole I d’Este. La testa del Redentore, improntata ad un assoluto rigore di suggestiva intensità religiosa, è immersa in un’atmosfera di irreale naturalità paesistica, in cui si svolge appena abbozzato, in un orto sulla destra, l’episodio “Noli me tangere”. Una variante con il “Noli me tangere” più evidenziato sul fondo esiste in collezione privata ( archivio fotografico Zeri). Il soggeto risale ad un dipinto di Mariotto Albertinelli conservato nella Galleria Borghese di Roma (inv.421). la vaga componente classicista del Cristo, unita ad un’aria di raffaellismo sottile e luminoso che stempera suggerimenti düreriani, suggerisce di collocare il dipinto negli anni della maturità del Coltellini, come già indicato dallo Zamboni, intorno alla metà del secondo decennio del secolo.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.
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Attribuito da Droghetti (1901), a Francesco Francia e poi da Barbantini (1910) alla scuola di Lorenzo Costa, il dipinto viene assegnato al Coltellini dal Bargellesi (1955) che lo colloca cronologicamente tra il Cristo risorto e santi del 1503, oggi a Berlino, e la Vergine in trono e Santi del 1506, ora a Baltimora. La Mezzetti (1964) ripropone la vecchia attribuzione a scuola del Costa e Silla Zamboni (1975) estromette il dipinto dal catalogo delle opere del Coltellini, mentre la Fioravanti Baraldi (1984) riconferma l’assegnazione della tavola a questo artista, spostandone la datazione al 1506. le caratteristiche formali di questa consueta rappresentazione di carattere devozionale trovano un reale riscontro nella più significativa produzione coltelliniana, evidenziandone i diretti suggerimenti dal Costa e dal Francia, ma sfumati da un’insolita morbidezza di derivazione panettiana.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.
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La tavola è frammento di una pala d’altare. Raffigura la Madonna in trono col Bambino che regge con la sua mano destra una rosa e con la sinistra una mela, la prima simbolo di purezza, l’altra di redenzione dal peccato originale. Generalmente legata al nome di Rondinelli, l’opera va tuttavia restituita plausibilmente, come è già stato proposto (Ricci 1905;Malaguzzi Valeri 1908; Buscaroli 1931; Golfieri 1977) al forlivese Baldassarre Carrari, documentato a Forlì e a Ravenna dal 1489 al 1516. Nel dipinto infatti, che certo mostra l’aggiornamento del Carrari sull’arte del Rondinelli (Si veda del Ravennate il più dolce Madonna col Bambino della Pinacoteca di Forlì), sono però palesi le tipiche sgrammaticature morfologiche di umore nordico, viste dalla cultura veneto-ferrarese (Ercole Roberti) e forlivese (Marco Palmezzano): inoltre la rigidezza di segno di questo dipinto non si riscontra mai con tale evidenza nelle forme più morbidamente eleganti del Rondinelli. Databile nella fase estrema del Carrari, a ridosso della firmata Madonna in trono col Bambino e i Santi Giacomo e Lorenzo dipinta per la chiesa di Sant’Appolinare in Classe a Ravenna, e ora a Brera, è certo che questa Madonna era in origine la parte centrale di una pala schematicamente molto simile a quella milanese, come dimostra anche la presenza, negli angoli in alto a destra e a sinistra delle decorazioni, frammenti dei bordi e dei tendaggi sollevati simili a quelli della tavola di Brera. Dello stesso periodo deve essere anche l’Adorazione dei Magi firmat “Baldasar forlivensi pinsit” (passata nell’asta Semenzato di Venezia il 23 ottobre 1983), il cui gruppo con la Madonna e il Bambino sulla destra ripete parzialmente quello di questa tavola.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.;La tavola è frammento di una pala d’altare. Raffigura la Madonna in trono col Bambino che regge con la sua mano destra una rosa e con la sinistra una mela, la prima simbolo di purezza, l’altra di redenzione dal peccato originale.
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La tela fu già catalogata come copia di Guido Reni, indi, constatate le consonanze con il san Giuseppe del Museo Civico di Pesaro (Giovannucci Vigi 1984), registrata come opera di ambito di Simone Cantarini. In altra sede (Bentini 1984) è stata avanzata una ipotesi più provinciale, vicina ai modi tardo-guercineschi, del reggiano Paolo Emilio Besenzi. Un’analisi più attenta della conduzione pittorica e di tutto l’impianto della composizione, assai discontinuo e con cadute qualitative vistose nelle quinte architettoniche di inquadramento della figura dell’Apostolo, conduce ad alcune considerazioni di carattere stilistico ed attributivo, in rettifica di quanto a suo tempo ipotizzato. La tela originale (ormai solo visibile dal fronte, dopo il rifodero degli anni Sessanta), è ascrivibile con buon margine di sicurezza al XIX secolo: la pennellata, ora insistita e filamentosa, ora nettissima, definisce i contorni e le volumetrie senza unitarietà alcuna; la scritta con data 1640, leggibile entro il cartiglio alla base della cattedra, inosospettisce maggiormente sull’opera. La presenza di San Pietro piangente di identica fattura appeso al fondo del coro della chiesa di San Pietro di Cento, opera del CAndi eseguita nel 1845, al momento della ristrutturazione dell’interno dell’edificio voluta dal padre Bonaventura Boni della Porretta, rilancia l’ipotesi che possa trattarsi di una replica di quella. L’asserzione dell’Atti, nella guida di Cento, che l’opera del Candi sia una copia di una quadro analogo soggetto al Garofalo esistente all’epoca in Ferrara, è ancora tutta da dimostrare (G.Atti, Sunto storico della città di Cento, Cento 1857, p.85). La figura pare peraltro rispecchiare, per volumetria e gestualità, la retorica postcarresca. Quanto ad esemplari iconografici seicenteschi di grande fortuna, piuttosto che al Reni, sembra di poter accostare l’opera a san Pietro Penitente del Guercino oggi alla galleria Nazionale di Edimburgo, datato 1639 e dipinto per il cardinale Rocci, legato di Ferrara (S. Salerno, I dipinti del Guercino, Roma 1988, p.264; Guercino in Britania, catalogo della mostra, a cura di M. Helston e F. Rassell, Londra 1981, p.48). La positura del Santo e il volto rigato di lacrime rivolto al cielo, pur su di uno sfondo diverso, si registrano anche nell’esemplare assegnato a Carlo Dolci della Bob Jones University di Greenville. Il problema resta dunque aperto per quanto concerne il riconoscimento della committenza e la acquisizione originaria dell’opera all’interno delle collezioni ferraresi. Quanto alla realizzazione, essa sembra attestarsi quale episodio, certo non isolato, di falso ottocentesco. È noto del resto il clima culturale ferrarese della prima metà del XIX secolo il fiorire della locale scuola dei copisti di carattere, avvezzi alla sostituzione degli originali secondo un preciso metro di salvaguardia a fini museografici dei dipinti antichi in pericolo di consunzione.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.
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Attribuita a Gnudi a “Maniera di Dosso Dossi” (1960), la teletta è copia parziale del Ritratto di uomo in figura di Saul con David accanto della Galleria Borghese di Roma, ritenuto copia cinquecentesca di un originale perduto di Giorgione (Ballarin 1983). La testa di Davide con il copricapo piumato, secondo la consuetudine di moda tra gli uomini di ventura e i “bravi”, rientra nel novero di quella riconosciuta abilità di copista di Caletti, attardato sulla grande pittura veneta cinquecentesca, che gli procurò “una fama ambigua, ma duratura nel mondo dei commercianti e degli antiquari”, andando ad incrementare il gusto collezionistico del “falso”, tanto diffuso nel Seicento. L’evidente prestezza del pennello e una certa “svogliatura” d’esecuzione si serve, in questa immaginem di densità cromatiche giorgionesche, irrorate di luminescenti spruzzature, e di ombreggiature fredde e perlacee, desunte dai tanti esempi (di affinità iconografica) di Pietro Muttoni Della Vecchia.
A cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.
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