Trionfo di Galatea
Olio su carta
| cm 38 x 48
Nella raccolta … di Massimiliano questo piccolo “abbozzo” su carta telata risulta assegnato alla mano di Gaetano Gioja riminese; Mina Gregori non si discosta da questa attribuzione, che rimane tale anche nel catalogo della vendita Sotheby’s del 1992, in cui questo dipinto venne presentato insieme a molti altri appartenenti all'”eredità giacente” del marchese Uberto Strozzi Sacrati. Il conte Gaetano Gioja, pittore riminese, era cognato di Massimiliano Sacrati Strozzi: “Aveva sposato Cristina Strozzi. Non ebbero figli, ed essa era già morta il 25 aprile 1846. Gaetano Gioia fu un valente pittore, allievo di Appiani.” Così recita la nota segnata su un biglietto inserito da Uberto Strozzi Sacrati nel diario dell’avo Massimiliano, tra le pagine che riportano la data del 24 agosto 1851, giorno in cui morì Gioja. Il quadretto potrebbe essere pervenuto alla collezione di Massimiliano Strozzi, assieme a due Veneri, come dono al cognato fatto dall’autore stesso, oppure può esser stato prelevato dal collezionista nella casa riminese di Gioia, che alla sua morte, avvenuta nel 1851, aveva lasciato una confusa situazione di tipo ereditario. La Galatea, uno dei rari dipinti superstiti di Gioia, viene ad arricchire lo scarno catalogo dell’artista, che esordì nel 1814 progettando nella piazza maggiore di Rimini un arco trionfale per il passaggio di Pio VII; in seguito eseguì interessanti incisioni di soggetto Canoviano e n ritratto della contessa Adele Graziani Cisterni al clavicembalo. Il quadro evoca direttamente il clima artistico in cui era inserito nella Ferrara di metà Ottocento il marchese collezionista Massimiliano Strozzi Sacrati, che già nel 1824 si era fatto ritrarre, a cavallo, da Girolamo Prepiani – il dipinto, ora in collezione privata a Roma, venne venduto nel 1989, asta Pandolfini, insieme a molti altri oggetti d’arte provenienti appartenenti all’eredità di Uberto Strozzi Sacrati – e nel 1851 aveva chiesto a Giuseppe Chittò Barucchi di inserirlo- insieme al servo Abdollah, ch’era vestito in abiti orientali – nella “veduta” del proprio palazzo ferrarese, a fianco della chiesa di San Domenico. Sull’esempio di pittori come Boldini, Mazzolari e altri che all’epoca rivolgevano la loro attenzione a temi “antichi” anche Gioia risolve la sua opera con esplicite citazioni dalla pittura del passato: ma mentre i due più illustri colleghi si rifanno alla tradizione del rinascimento ferrarese, egli sembrerebbe volersi ispirare ai maestri del Seicento emiliano. Lucio Scardino (1995) mette in evidenza, infatti, come la composizione rifiuti d’ispirarsi al celeberrimo modello offerto da Raffaello nell’affresco della Farnesina, per privilegiare invece suggestioni di quei maestri bolognesi del XVII secolo, fra il Domenichino e l’Albani, che traducevano le favole mitologiche con accenni naturalistici e idilliaci, al di là dell’imperante gusto barocco. Vi evidenzia, inoltre, un legame con i “guercineschi”, anche in senso iconografico: dalla Galatea eseguita dal maestro centese nel 1657 (oggi a Salisburgo), dove la ninfa in trionfo, seduta su un cocchio e sovrastata da un fluttuante panneggio, fino a qella più “drammatica” di Benedetto Gennaari, che si appresta a fuggire da Polifemo su una grande conchiglia, accompagnata da un corteo di tritori e “amoretti, due de’ quali a cavallo di delfini stan suonando certe lumache maritime”.;Giuliana Marcolini, “La collezione Sacrati Strozzi, i dipinti restituiti a Ferrara” Fondazione CARIFE, 2005.
Identificativo: 17
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