Allegoria bacchica
– Bastianino

Allegoria con Bacco

1570-1580 ca.
Olio su tela
| Cm 127 x 165

Il dipinto è uno dei rarissimi quadri da cavalletto di soggetto profano di Bastianino oggi noti. La gaudente figura di Bacco incoronato di fiori e spighe sembra indurre uomini e animali a imitarla. Simboli di lussuria spesso associati a Bacco sono sia la scimmia alla catena che la serva nera con il fuso infilato nel turbante. Al culto di Dioniso era associata pure la ciarliera gazza, che veniva sacrificata al dio per ricordare quanto il vino sciolga la lingua. Rimane invece oscuro il significato da attribuire ai due bambini, di cui l’uno, un piccolo gentiluomo in gorgiera, beve da un bicchiere di vetro, mentre l’altro regge un fiasco e porta sulla spalla una rete colma di sassi. La stesura pittorica nebulosa e sdutta, drammaticamente baluginante sul fondo d’ombra, e le forme espanse fino alla deformazione della anatomia sono un omaggio al genio irriverente di Dosso Dossi, mentre la ricerca di effetti umoristici attraverso l’espressività caricata dei volti e l’intento scopertamente parodistico nei confronti del mito classico, sembra richiamare la “pittura ridicola” di origine nordeuropea. Marcello Toffanello  
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Questo affasciante e intrigante dipinto, comparso sul mercato antiquario come opera di Annibale Carracci, viene ora restituito alla mano di Bastianino, sulla scia dei pareri espressi tanto da Aidan Weston-Lewis quanto da Daniele Benati.

Figlio di Camillo Filippi, Bastiano detto il Bastianino intraprese l’attività di pittore nella bottega paterna, collaborando in seguito con altri artisti ai progetti decorativi più importanti della corte estense. La sua carriera coincide infatti quasi con esattezza con le vicende malinconiche ed affascinanti di Alfonso II d’Este, ultimo Duca di Ferrara prima che lo Stato della Chiesa, inglobando il ducato nel 1598, ponesse fine ad una delle più magnifiche civiltà del Rinascimento italiano. Volendo rimanere sulla linea di Roberto Lunghi, che definì Bastianino “quasi un William Blake del Manierismo italiano”, Francesco Arcangeli nella sua monografia del 1962 traccia un ritratto del maestro quale precursore della sensibilità romantica, denunciando le corrispondenze tra le sue opere a soggetto sacro e la languida e sensuale poesia di Tasso. Ed è proprio a questa dimensione storica di decadenza che Arcangeli vuole ricondurre il passaggio di Sebastiano Filippi dallo “stile comico” delle sue grottesche giovanili ai toni drammatici delle sue opere più mature, che risentono ormai di Michelangelo e dell’ultimo Tiziano.

Il presente dipinto, a voler giudicare dalle sue dimensioni, doveva essere una commissione di una certa importanza e la sua scoperta di certo arricchisce la nostra conoscenza di Bastianino come pittore di Opere profane, conoscenza sinora basata unicamente sulle fonti scritte e su quel che rimane della decorazione della Palazzina di Marfisa d’Este e del Castello Estense.

Per apprezzare correttamente le qualità formali e culturali del dipinto è dunque necessario non ricercare analogie con le teorie e la pratica artistica promosse dall’Accademia dei Carracci a Bologna; al contrario il dipinto va indagato all’interno del Rinascimento ferrarese, ancora promotore degli ideali dell’Umanesimo. D’altra parte, il dipinto mostra le stesse bizzarre, strane, ironiche e giganti figure che Bastianino inventa nella sua reinterpretazione della mitologia classica, così come era stata elaborata dall’architetto e antiquario di corte Pirro Ligorio per il soffitto della Sala dei Giochi del Castello Estense. Sebbene rimanga un’eco del gusto per la “pittura ridicola” così coane era discussa nel Trattato dell’arte della pittura di Giovanni Paolo Lomazzo del 1584, quest’opera in realtà sembra riproporre una delle peculiari allegorie di Dosso Dossi, così amate dagli Estensi, quale ad esempio la cosiddetta Stregoneria, o Allegoria di Ercole, oggi agli Uffizi. Non vi è il tentativo di emulare le tematiche popolari ed il realismo delle coeve sperimentazioni di Annibale Carracci, Bartolomeo Passarotti e Vincenzo Campi, che portavano avanti una “rivoluzione” nell’elaborazione delle scene di genere. Il dipinto che qui si esamina rimane invece ben ancorato ad una “pittura di corte”, che a sua volta altro non era che una interpretazione del “genere giorgionesco”, una volta filtrato da Dosso Dossi in opere quali la decorazione del soffitto della camera da letto di Alfonso 1 d’Este o il Buffone della Galleria Estense di Modena, dal quale sembra derivare l’ironica e quasi caricaturale espressività del volto del protagonista della nostra Allegoria, così come a Dosso sembra ispirarsi il dettaglio delle maniche arrotolate che lasciano in bella vista la distorta anatomia dell’avambraccio.

Balza di certa agli occhi, quale segno evidente dei tempi ormai mutati, la maniera in cui il tema dionisiaco, di enorme successo a Ferrara sin dai famosi Camerini decorati per Alfonso d’Este con Storie di Bacco e di Arianna, è ora reinterpretato in modo anticlassico e a dir poco grottesca. Ogni dipinto commissionato da Alfonso 1 per la sua collezione ha alle sue spalle lo studio di testi eruditi e fonti antiche, ma è altrettanto vero che gli eccessi e l’esaltazione gioiosa dei più bassi appetiti risultano essere il vero soggetto di quest’opera, quasi a riecheggiare il nome di Francois Rabelais. Si ricordi anche che tra le commissioni eseguite da Bastainino per la corte estense vi sono le gigantesche figure per la rappresentazione

teatrale del Tempio d’amore in occasione del matrimonio di Alfonso II e Barbara d’Austria nel 1565, come pure il suo intervento, nel 1569, sui dipinti del Camerino dei Baccanali nel Castello, dipinti eseguiti sette anni prima da Leonardo da Brescia e che sono una sorta di antologia della pittura ferrarese della prima metà del secolo.

Tornando ad indagare il complesso impianto iconografico della tela, si può notare che il protagonista riassume due tipi codificati da Cesare Ripa nella sua Iconologia del 1595. Il primo e la personificazione dell’Allegrezza, che è infatti così descritta: “Giovanetta con fronte carnosa, liscia e grande […] e fiori rossi, e gialli, con una ghirlanda in capo di varai fiori, nella mano destra tenga un vaso di cristallo pieno di vino rubicondo, e nella sinistra una gran tazza d’oro [ . . . ] Il vaso di cristallo pieno di vino vermiglio, con la tazza d’oro, dimostra che l’allegrezza per lo più non si cela & volentieri si communica [.. . ]”. La figura può altresì apparire appoggiata ad un olmo, circondato di tralci, a dimostrare la gioia di spirito che dal vino scaturisce. Questa figurazione così positiva è in questo caso mescolata ad un’altra negativa, così come viene descritta da Ripa nelle personificazioni della Gola o Ingordigia: una donna brutta, grassa e moscia, solitamente con un abito rossastro, a dimostrare come i vizi la consumino, così come la ruggine divora il ferro.

Il dipinto raffigura dunque la duplice natura di Bacco e dei suoi piaceri: se da un lato è fonte di allegria, e di convivialità, e può essere inteso quasi come mezzo di elevazione a Dio, dall’altro appare come vizio che spinge il genere umano ad abbandonarsi agli istinti. La natura ambigua dell’ebbrezza – così come appare non solo nei testi dell’antichità classica, ma anche nella Bibbia (Genesi, IX, 2()) e nei testi evangelici – sembra dunque essere la chiave di lettura del dipinto, che infatti può idealmente essere diviso in due parti. Sulla destra vi è una serva di colore, con un fuso sul turbante, una scimmia alla catena e una gazza, tutti emblemi di lussuria, vizio, linguaggio e condotta licenziosa. Nell’antichità le gazze venivano infatti sacrificate a Bacco, poiché la loro parlantina veniva vista come simbolo della scioltezza di lingua che il vino produceva, scioltezza che portava a rivelare anche i segreti più importanti. Sulla sinistra invece si collocano i simboli per così dire positivi: un tralcio, un calice di vino purissimo ed i bambini, a significare amicizia e sincertà d’animo. La borsa piena e chiusa e le chiavi, spesso utilizzate con allusioni sessuali, sembrano in questo caso simboleggiare i1 completo autocontrollo, in contrasto con la perdita delle capacità di intendere e volere a cui l’ubriacatura porta. Va anche aggiunto che i bambini, la scimmia e la gazza possono essere visti come imitazione del comportamento umano, sia in senso positivo di emulazione, sia in senso negativo di parodia e gretta ripetizione. Sia il bambino con la borsa di pietre che la scimmia guardano intensamente la figura centrale, che a sua volta risponde allo sguardo del primo ed accarezza l’animale. Il bambino poi può essere un’allusione al giovane Davide: il Vecchio Testamento racconta con precisione di quando andò a fronteggiare Golia, armato solo di una fionda e cinque pietre. lo stesso numero di pietre che il ragazzo del dipinto porta sulle spalle. Si aggiunga poi che la storia di Davide è ricca di episodi dai toni, se così si può dire, bacchici: danzò nudo davanti all’Arca dell’Alleanza, desiderò perdutamente Betsabea, e fu di certo un eccellente poeta. Davide può dunque ben impersonare la dualità con la quale il Rinascimento ha guardato a Bacco ed ai culti dionisiaci. Se questa interpretazione non si lega alla figura centrale ma ad un dettaglio, seppur fondamentale, del dipinto, essa ci illumina su come il vino può essere contemporaneamente fonte di ispirazione di nobili pensieri e causa di aberranti comportamenti.

Da un punto di vista stilistico, l’attribuzione alla scuola ferrarese della fine del Cinquecento ed in particolare a Bastianino appare la più verosimile. Tipici di Sebastiano Filippi sono infatti il rigonfiamento delle forme, i contorni sfumati e le sottili e quasi liquide velature color grigio-cenere sulla veste della figura centrale, così intimamente sue e così lontane dalla maniera di Annibale Carracci. I caratteri fisiognomici del fanciullo in primo piano, se solo fossero più raffinati, diverrebbero quasi sovrapponibili ad una serie di putti che Bastianino dipinse nelle sue pale d’altare. D’altro canto la testa del ragazzo nell’atto di bere, testa che si distingue dal resto del dipinto per uno straordinario uso della luce e per una

sensibilità di tocco e di spirito quasi bassanesca, richiama immediatamente la testa di Gesù Bambino nella tenera Madonna della Pinacoteca Nazionale di Ferrara. A seguito di queste considerazioni, si può datare la tela all’inizio degli anni Settanta del Cinquecento, prima del Giudizio Universale dell’abside della Cattedrale di Ferrara (1577-1580), dove già è evidente il disintegrarsi delle forme tipico di Bastianino nell’ultima fase della sua attività.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

F. Arcangeli, 11 Bastianino, Ferrara, 1962.
J. Bentini (a cura di), Bastianino e la pittura a Ferrara nel secondo Cinquecento, catalogo della mostra, Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 1985.
J. Bentini e L. Spezzaferro (a cura di), L’impresa di Alfonso II. Saggi e documenti sulla produzione artistica a Ferrara nel secondo Cinquecento, Bologna, 1997.
A. Emiliani e G. Venturi (a cura di), Tasso, Tiziano e i pittori del parlar disgiunto. Un laboratori fra le arti sorelle, catalogo della mostra, Ferrara, Palazzo dei Diamanti, e Venezia, 1997.

 


Identificativo: 109 [589]

Acquisizione: 2008

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