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Autore: Ahmed Boudraa

Madonna immacolata con il Bambino e i santi Andrea e Francesco

Riferita nell’inventario 1850 a un allievo di Raffaello e nel 1983 “Scuola del Garofalo” da Mina Gregori (inv. 1983 P.S.S), l’opera è presentata nel catalogo Sotheby’s nel 1992 come di “Scuola ferrarese del XVI secolo”. Sempre nel 1992 è stata attribuita a Zenone Veronese da Angelo Mazza; attribuzione ripresa nella monografia dell’artista curata da Amaturo, Marelli, Ventura (1994), dove è anche stata ipotizzata una committenza francescana. La tavola Strozzi Sacrati mostra strette analogie formali e compositie con la pala Madonna in gloria e i santi Agostino e Marino – ora a Genga, chiesa di Santa Maria Assunta – che valse a Zenone gli elogi del Vasari, come pure con la pala Madonna con il Bambino in trono tra i santi Giovanni evangelista e Maddalena – già Forlì, collezione Paulucci de’ Calboli, distrutta durante l’incendio nel palazzo durante la Seconda guerra mondiale – altra opera probabile destinazione romagnola; in particolare, nella Madonna raffigurata in entrambe queste opere Isabella Marelli riconosce la stessa bionda modella che Zenone ha impiegato per la Madonna della tavola Strozzi Sacrati. E queste due opere, nel corpus della sua produzione, compatto e coerente nello svolgimento, spiccano per la speciale modernità di linguaggio figurativo e per i sorprendenti esiti qualitativi, caratteristiche che si possono accreditare anche alla pala Strozzi Sacrati. Secondo Mazza (1996) l’incontro delle originarie componenti veneto-bresciane dell’artista con le interpretazioni emiliane della cultura raffaellesca induce ad avanzare l’ipotesi della destinazione emiliana anche per quest’opera; lo confermano la connotazione “ferrarese” del paesaggio ( del resto già individuata da Mina Gregori nella sua attribuzione dell’opera a “Scuola del Garofalo”) e la verosimile datazione al terzo decennio del secolo, equidistante dalla Pala di Genga (1521) e dal Compianto su Cristo morto del Collegio Alberoni di Piacenza (1526).;Giuliana Marcolini, La collezione Sacrati Strozzi, I dipinti restituiti a Ferrara, Fondazione CARIFE, Federico Motta Editori S.p.A., 2005, Milano.

Zenone Veronese

Trionfo di Galatea

Nella raccolta … di Massimiliano questo piccolo “abbozzo” su carta telata risulta assegnato alla mano di Gaetano Gioja riminese; Mina Gregori non si discosta da questa attribuzione, che rimane tale anche nel catalogo della vendita Sotheby’s del 1992, in cui questo dipinto venne presentato insieme a molti altri appartenenti all'”eredità giacente” del marchese Uberto Strozzi Sacrati. Il conte Gaetano Gioja, pittore riminese, era cognato di Massimiliano Sacrati Strozzi: “Aveva sposato Cristina Strozzi. Non ebbero figli, ed essa era già morta il 25 aprile 1846. Gaetano Gioia fu un valente pittore, allievo di Appiani.” Così recita la nota segnata su un biglietto inserito da Uberto Strozzi Sacrati nel diario dell’avo Massimiliano, tra le pagine che riportano la data del 24 agosto 1851, giorno in cui morì Gioja. Il quadretto potrebbe essere pervenuto alla collezione di Massimiliano Strozzi, assieme a due Veneri, come dono al cognato fatto dall’autore stesso, oppure può esser stato prelevato dal collezionista nella casa riminese di Gioia, che alla sua morte, avvenuta nel 1851, aveva lasciato una confusa situazione di tipo ereditario. La Galatea, uno dei rari dipinti superstiti di Gioia, viene ad arricchire lo scarno catalogo dell’artista, che esordì nel 1814 progettando nella piazza maggiore di Rimini un arco trionfale per il passaggio di Pio VII; in seguito eseguì interessanti incisioni di soggetto Canoviano e n ritratto della contessa Adele Graziani Cisterni al clavicembalo. Il quadro evoca direttamente il clima artistico in cui era inserito nella Ferrara di metà Ottocento il marchese collezionista Massimiliano Strozzi Sacrati, che già nel 1824 si era fatto ritrarre, a cavallo, da Girolamo Prepiani – il dipinto, ora in collezione privata a Roma, venne venduto nel 1989, asta Pandolfini, insieme a molti altri oggetti d’arte provenienti appartenenti all’eredità di Uberto Strozzi Sacrati – e nel 1851 aveva chiesto a Giuseppe Chittò Barucchi di inserirlo- insieme al servo Abdollah, ch’era vestito in abiti orientali – nella “veduta” del proprio palazzo ferrarese, a fianco della chiesa di San Domenico. Sull’esempio di pittori come Boldini, Mazzolari e altri che all’epoca rivolgevano la loro attenzione a temi “antichi” anche Gioia risolve la sua opera con esplicite citazioni dalla pittura del passato: ma mentre i due più illustri colleghi si rifanno alla tradizione del rinascimento ferrarese, egli sembrerebbe volersi ispirare ai maestri del Seicento emiliano. Lucio Scardino (1995) mette in evidenza, infatti, come la composizione rifiuti d’ispirarsi al celeberrimo modello offerto da Raffaello nell’affresco della Farnesina, per privilegiare invece suggestioni di quei maestri bolognesi del XVII secolo, fra il Domenichino e l’Albani, che traducevano le favole mitologiche con accenni naturalistici e idilliaci, al di là dell’imperante gusto barocco. Vi evidenzia, inoltre, un legame con i “guercineschi”, anche in senso iconografico: dalla Galatea eseguita dal maestro centese nel 1657 (oggi a Salisburgo), dove la ninfa in trionfo, seduta su un cocchio e sovrastata da un fluttuante panneggio, fino a qella più “drammatica” di Benedetto Gennaari, che si appresta a fuggire da Polifemo su una grande conchiglia, accompagnata da un corteo di tritori e “amoretti, due de’ quali a cavallo di delfini stan suonando certe lumache maritime”.;Giuliana Marcolini, “La collezione Sacrati Strozzi, i dipinti restituiti a Ferrara” Fondazione CARIFE, 2005.

Gaetano Gioia

Storie della vita di Santa Marina

Il tema iconografico delle Storie di Santa Marina è piuttosto raro. Qui sono illustrate tre scene della vita della Santa che visse in incognito presso un monastero maschile e per questo è vestita come un giovane monaco. ;;Entrambe le tavole sono da riferirsi all’ambiente artistico veneziano. Lo sfondo architettonico nelle Storie di Santa Marina è in stretta relazione con i modelli elaborati dalla bottega di Antonio Vivarini intorno alla metà del XV secolo. ;

Scuola veneto-marchigiana della prima metà XV sec

San Francesco riceve le stigmate

Nella tavola con le Stigmate di San Francesco, sono più evidenti i richiami all’opera di Michele Giambono, specie nel paesaggio roccioso alle spalle del Santo. Entrambe le tavole sono da riferirsi all’ambiente artistico veneziano;;Le due piccole tavole cono classificate opere della “scuola fiorentina” nell’inventario 1850 e il soggetto rappresentato è definito per entrambe un generico “santo eremita”. Nel 1983 Mina Gregori le attribuisce a un artista della scuola dei marchigiani Salimbeni e riconosce nei soggetti rappresentati san Francesco e una santa monaca. I due dipinti appaiono in catalogo d’asta Sotheby’s nel 1992 come opera genericamente di “Scuola marchigiana, inizio secolo XV”; successivamente Tiziano Franco (1996) li colloca in un altro ambiente artistico, quello veneziano dei primi decenni del Quattrocento e nei soggetti rappresentati conferma san Francesco e identifica la santa monaca come santa Marina. La scelta dell’orientamento verso un’origine in area veneziana e verso quella data d’esecuzione viene motivata daal fatto che nei due dipinti si possono vedere segni di aggiornamento ai modelli della bottega del Vivarini, che la Franco individua in particolare nello sfondo architettonico del pannello della santa, costituito da una chiesa dalla facciata caratterizzata da un frontone curvilineo tipicamente veneziano. La mancanza di respiro spaziale delle scene e soprattutto l’impostazione di quella delle stigmate, di retaggio ancora trecentesco, denunciano però radici culturali più attardate, mentre la qualità morbida della pittura richiama il modo di operare di Giambono, combinandosi a una espressività dettagliata in sintonia con la miniatura del tardo Cristoforo Cortese. Le due tavolette molto probabilmente erano parte di una composizione più vasta, come un altarolo o un piccolo polittico. Se la rappresentazione di un momento miracoloso della vita di san Francesco quale è quello del conferimento delle stimmate è più che frequente, piuttosto rara è invece la rappresentazione della vita di santa Mariana. La storia di questa santa, che ritroviamo in buona parte del Medio Oriente, narra che un uomo, dopo la morte della moglie, volendo ritirarsi in un monastero, portò con sé la figlioletta e, per poter vivere tra i frati, la costrinse a fingersi uomo, facendole giurare che mai nella sua vita avrebbe rivelato di essere donna. Così la fanciulla crebbe come Marino, monaco tra i monaci. Un giorno fu accusata di aver messo incinta la figlia di un locandiere e , per questa gravissima accusa, da cui poteva facilmente discolparsi se avesse rivelato di essere donna, fu cacciata dal monastero. La donna visse in una grotta come un eremita, implorando ogni giorno di essere riammessa tra i monaci, e crebbe il bambino, frutto del presunto peccato di lussuria. Infine i frati,la riammisero tra loro, condannandola però a svolgere i lavori più umili. La verità emerse, tra lo stupore dei monaci, solo dopo la morte di “frate Marino”, quando fu chiaro che non si trattava di un fraticello lussurioso ma di una santa fanciulla, pronta anche ad accettare il peso di una colpa non commessa pur di proteggere la sua castità. L’eremo in cui visse Marina, una volta lontana dal monastero, è localizzato dalla tradizione locale ad Ardea, nei pressi di Roma, in una grotta a ridosso della rupe detta Monte della Noce, all’interno dell’attuale cimitero cosiddetto “vecchio”, alle spalle dell’altare dell’omonima chiesa di santa Marina. Nella tavoletta Strozzi Sacrati questi diversi episodi vengono narrati visivamente in un unicum, ma in realtà nella rappresentazione compaiono i tre momenti salienti della vicenda (la cui conoscenza ha come probabile fonte in codici miniati agiografici): quello dell’accusa, quello dell’ammissione della impossibile colpa e quello dell’accoglimento presso di sé del “figlio”. Il tutto narrato con sintetica ma espressiva capacità descrittiva, la stessa con cui è descritto anche l’episodio delle stimmate nella tavoletta con il san Francesco.;Giuliana Marcolini, La collezione Sacrati Strozzi. I dipinti restituiti a Ferrara, Milano, 2005 Fondazione CARIFE, Federico Motta editore S.p.A

Scuola veneto-marchigiana della prima metà XV sec

Orazione nell’orto

Questa piccola tavola è attribuita nell’inventario 1850 a “Dosso Dossi”. Nel 1933 viene esposta alla mostra sul Rinascimento ferrarese a Ferrara con la stessa attribuzione, poi confermata da Longhi (1934), Berenson (1968), Mezzetti (1965), Gregori (inv. 1983 P.S.S) e nel catalogo dell’asta Sotheby’s del 1992; non così per Gibbons (1968), il quale vede il dipinto come un’opera del giovane Battista, databile a poco prima del 1520, un parere condiviso da Alessandra Ballarin (1995) che suggerisce una data leggermente anticipata, al 1516 circa. Come ipotizzato da Vittoria Romani (1995), la scritta “S.to Antonio” posta al rovescio della tavola può alludere a una provenienza del dipinto dal convento ferrarese di Sant’Antonio in Polesine. Quanto al collegamento indicato da Gibbons (1968) con un dipinto di Dosso di questo soggetto citato negli inventari di Lucrezia d’Este del 1592, quindi in quelli Aldobrandini, tale collegamento sembra difficilmente sostenibile e non solo perché, come ha rilevato Romani, le dimensioni del dipinto citato negli inventari di Lucreziani sono leggermente maggiori rispetto a quello Strozzi Sacrati, ma anche perché nell’inventario del 1682, pubblicato da Paola Della Pergola (1963), si dice esplicitamente: “Un quadro in tela […] alto palmi tre e mezzo”, e invece in questo caso siamo di fronte a tavola. Battista rappresenta una sua “agonia” di Cristo, diversa dagli esempi offerti da altre “agonie”, come quella di Panetti della stessa collezione Strozzi Sacrati. Mette, infatti, in grande risalto la figura del Salvatore, ponendola inginocchiata sopra una collinetta; ai suoi piedi i tre apostoli addormentati e, sulla destra, il gruppo degli armigeri guidati da Giuda. Il tutto immerso in un paesaggio boscoso, ricco di vegetazione dettagliatamente descritta, rischiarato e messo in evidenza dalla luce proveniente da una nube sfolgorante in cui spiccano, parzialmente visibili, i simboli della prossima Passione; il tutto reso secondo un’espressività impressionista ante litteram. E questa reas pittorica risente della lezione di Dosso, sempre altrettanto luministicamente e “impressionisticamente” descrittivo nelle ambientazioni naturalistiche.;Giuliana Marcolini, La collezione Sacrati Strozzi, I dipinti restituiti a Ferrara, Fondazione CARIFE, Federico Motta Editori S.p.A., 2005, Milano.

Dosso Dossi

San Rocco e l’Angelo

La tela risulta presente nell’inventario 1850, registrata come di mano di “Giacomo Palma il giovane”; la correttezza dell’attribuzione viene confermata da Mina Gregori enl 1983, supportata anche dalla firma dell’autore, “Jacobus Palma”, apposta in caratteri capitali sulla base lignea su cui sta accasciato il santo. Anche nel catalogo d’asta Sotheby’s del 1992 il dipint viene presentato come opera del Palma. Oltre la firma, secondo Sergio Marinelli (1996), il riferimento autografo all’artista veneto poggia soprattutto sull’evidenza stilistica. I colori corrispondono alla tavolozza di Palma, con i tipici rossi e gialli ocra del pittore. Sottolinea, però, che l’aspetto accattivante dell’immagine, subito affermato dal profilo intenso del santo, stagliato su di un’aureola di luce, è poi disturbato da altri particolari, che segnano delle cadute nell’altezza e nella tensione del linguaggio, facendo sospettare inevitabilmente l’intervento di aiuti: in particolare, sono le due mani del santo e le braccia dell’angelo cche mancano di un rapporto di proporzione credibile. Tale squilibrio è forse in parte superabile se si pensa alla tela come concepita, più che come piccola pala o immagine devozionale, per una collocazione come “sopraporta” – come in altri casi di Palma è documentato -, quindi con esigenze prospettiche che possono averne determinato le “sproporzioni” citate. La figura di SAn Rocco fu più volte dipinta da Palma, sia sola sia con altri santi. E in quasi tutti i dipinti che lo rappresentano l’artista colloca, accanto alla figura, di Rocco i suoi attributi iconografici: il bastone da pellegrino con attorcigliata la benda bianca, che ogni appestato doveva portare con sé per segnalare la sua malattia, il cane che lo accudiva, procurandogli cibo e pulendogli le ferite, e l’angelo che lo soccorse per curarlo fino alla miracolosa guarigione. La cronologia dell’esecuzione di questo San Rocco sembrerebbe piuttosto tarda, data l’analogia stilistica prossima alla Vergine che appare a san Giacomo di Brera, depositato a Paderno Dugnano ma proveniente da Monselice, che Mason Rinaldi data intorno al 1620.;Giuliana Marcolini, “La collezione Sacrati Strozzi, i dipinti restituiti a Ferrara” Fondazione CARIFE, 2005.

Jacopo Negretti

San Simonino da Trento

Nella notazione relativa al lotto cui questo dipinto viene assegnato, la Gregori aggiunge una frase che ben riassume la vicenfa di cui fu protagonista il soggetto dell’opera: “Opera notevole e importante perché dedicata al Santo che si ritenne mertirizzato dagli Ebrei (si ricorda la presenza di una vasta colonia israelita a Ferrara)”. La vicenda cui fu protagonista Simonino si impernia su di un fatto di efferrata ferocia che portò alla sua uccisione a Trento il 26 marzo 1475. Secondo una falsificazione storica, poi smentita dall’autorità cattolica nel 1965, Simonino Lomferdorm, di due anni e mezzo, venne ucciso da un gruppo di ebrei, che lo sacrificarono come vittima celebrativa della Pasqua ebraica che correva proprio quel giorno. L’accusa nei confronti degli ebrei tridentin venne sostenuta dal vescovo Johannes Hinderbach, con lo scopo di scatenare sentimenti antisemiti nei concittadini per contrastare i banchi d’usura degli ebrei, essendo egli tra i grandi promotori degli allora nascenti Monti di Pietà. Il vescovo diede molto risalto alla vicenda anche fuori Trento, e sfruttò come veicolo di diffusione la nascente stampa. Sono molte, infatti, le incisioni che raffigurano il martirio di Simonino, descritto in tutti i suoi particolari crudeli e raccapriccianti. Nelle stampe dell’epoca si legge tutta la storia, dal rapimento del bimbo alle fasi del suo martirio: Simonino, catturato con blandizie, viene trattenuto a braccia spalancate – un forte richiamo alla crocifissione di Cristo – dai carnefici, che poi lo strangolano con una stola bianca, mentre un altro gli strappa un brano di carne dalla mascella con una tenaglia; gli viene inferta poi un’orrenda mutilazione al pene – crudele punizione per una non avvenuta circoncisione -, il cui sangue viene raccolto in un bacile, infine il resto dei partecipanti al martirio gli crivella il corpo con degli spilloni. Seguono poi lo spregio al cadavere del bambino e la rappresentazione del banchetto rituale. Il percorso narrativo si conclude con il ritrovamento del corpo martirizzato di Simonino e il conseguente processo di coloro che erano considerati gli autori dell’orribile crimine. Accanto a questa rappresentazione di tono “veristico” se ne affianca un’altra, di carattere quasi “astratto” e corredata solo dei simboli iconografici del martirio: la sciarpa bianca, il bacile con il sangue, la tenaglia e i chiodi. Il bimbo, raffigurato vestito – e non più nudo con le sue mutilazioni e ferite apertamente in vista -, stringe nella mano destra il vessillo con la croce, simbolo del martirio di Cristo. Questo tipo di rappresentazione fu particolarmente usato da quegli artisti che dipinsero Simonino nel periodo dopo la Controriforma, trovandolo molto più consono ai dettami imposti dalla Chiesa e stabiliti durante un concilio di Trento relativi all’iconografia dei dipinti di soggetto sacro. E proprio in questo periodo fu dipinto Simonino da Trento della conciliazione Sacrati Strozzi. Il piccolo viene rappresentato come Triumphans in quanto recante il vessillo crucifero, è rigorosamente vestito e gli strumenti serviti dal suo martirio vengono ostentati come attributi esornativi. Inoltre Simonino – accompagnato da altri due bambini che sembrano riferibili ali allettamenti usati dagli ebrei per rapirlo – viene raffigurato non più come un bambino di due anni e mezzo, ma come un adolescente che meglio può rappresentare la coscienza del suo martirio; tale cambiamento risponde ai dettami della tradizione canonista secondo la quale un essere umano è responsabile di sé stesso a partire dai sette anni. Molto simile al dipinto sopra citato è un altro esempio tuttora presente a Ferrara presso la collezione Guizzardi, unica variante è l’assenza degli altri due bambini e il colore del vestito del Simonino, che in questo caso è verde anziché bordeaux. La medesima tipologia è riscontrabile in una tavola di grande formato (300 x 280 cm), conservata a Perugia presso la galleria Nazionale d’Umbria, opera di Pier Martino Fiammingo. Simonino viene collocato, diversamente dai due casi precedenti, all’interno di un’architettura dalla forte impostazione prospettica, circondata da una cornice ripartita in nove quadretti con gli episodi della storia del martirio. Evidentemente questi tre dipinti fanno riferimento a un unico prototipo molto probabilmente di derivazione grafica. I due esemplari di provenienza ferrarese risultano particolarmente interessanti perché attestano insieme ad altre testimonianze il culto del presunto santo anche a Ferrara, città con una consistente comunità ebraica.;Giuliana Marcolini, “La collezione Sacrati Strozzi, i dipinti restituiti a Ferrara” Fondazione CARIFE, 2005.

Pittore Italia Settentrionale prima metà XVII sec

Madonna col Bambino, san Giovannino e un angelo

Le note relative a questo dipinto contenute nell’inventario 1850 contengono due vicende critiche che hanno portato all’individuazione del fiorentino Biagio d’Antonio come autore di quelle opere faentine che erano state riferite a due esponenti di una locale famiglia di artisti, gli Utili, Andrea e Giovanni Battista, almeno fino all’intuizione di Grigioni (1934) che ha avanzato il nome di Biagio d’Antonio; proposta subito accolta da Roberto Longhi nella officina ferrarese ( 1934) e pochi anni dopo da Luisa Becherucci. La conferma documentaria è stata fornita da Ennio Golfieri e da Antonio Corbara in un comune scritto del 1947. Per quanto riguarda questa tavola, la sua prima attribuzione a Biagio sembra possa ascriversi al collezionista Charles Loeser, come si evince dall’inventario del 1850. A ogni modo il dipinto, insieme all’altro di Biagio nella stessa collezione, è stato correttamente riconosciuto all’artista da Mina Gregori, durante la stesura dell’inventario della raccolta effettuata dopo la morte di Uberto Strozzi Sacrati a Firenze (inv. 1983 P.S.S) e con tale attribuzione è stato presentato in asta Sotheby’s nel 1992. Angelo Mazza (1996) ha confermato ome l’opera di situi con certezza nel catalogo dell’artista, manifestandone anzi i tratti più peculiari, a partire dalla tipologia della Vergine e dall’inclinazione del volto con lo sguardo abbassato coincidente con le immagini di altre sue numerose opere. Sono elementi che Biagio d’Antonio ripropone in una lunghissima serie di dipinti, eseguiti, pure nella ripetitività tipologica, con una meticolosità sempre impeccabile. Il gruppo di personaggi, in particolare, ripete una composizione simmetrica sperimentata di Biagio in altre opere, come il tondo già in collezione Franchetti (ora Venezia, Ca’ d’Oro), e poi nei due dipinti in collezione privata a Trento e già Demidoff. La composizione è inserita in un paesaggio, visibile sullo sfondo, percorso da colline, cespugli ed esili alberelli. In primo piano, al centro, è la Madonna seduta sul trono, intenta ad allattare il Bambino, il quale regge nella mano sinistra un uccellino. A sinistra è san Giovanni, descritto con pastorale e il consueto abbigliamento – pelliccia e mantello rosso -, mentre a destra si colloca un angelo in veste bianca, con le mani giunte. Introduce la composizione il muretto in primo piano sul quale poggia una mela. La tavola p inserita all’interno di una ricca cornice in legno dorato, ornata con motivi geometrici decorati da rosette, che forma quasi un tutt’uno con il dipinto stesso. Cronologicamente è ascrivibile alla prima metà dell’ultimo decennio del XV secolo (Bartoli 1999), nel periodo della piena maturità dell’artista, tra la Pala di Pergola (Faenza, Pinacoteca comunale) e la Madonna con il Bambino in trono e i santi Giovanni Battista e Girolamo, a metà tra soluzioni compositive convenzionali e quasi meccaniche, e i mutamenti di fine secolo, incentrati nella ricerca di una sempre maggiore solennità delle figure, di cromatismi sempre più raffinati, che confluiranno nella Pala Bazzolini (Faenza, Pinacoteca comunale), eseguita nel 1504 per la chiesa faentina di San Francesco (cavalli 2001).;Giuliana Marcolini, La collezione Sacrati Strozzi. I dipinti restituiti a Ferrara, Milano, 2005 Fondazione CARIFE, Federico Motta editore S.p.A

Biagio D'Antonio Tucci

Madonna col Bambino e libro

L’usura della superficie permette altresì di apprezzare la sapiente costruzione dell’immagine, ottenuta partendo da un disegno a pennello, ben leggibile sotto la vestina del Bimbo, e completata attraverso replicate velature: nel manto la Vergine, a un’uniforme campitura di cinabro si soprammettono le dense finiture a lacca, che restituiscono il movimento delle pieghe, e le lumeggiature di biacca, che determinano la forte plasticità della figura. La parziale perdita dell’oro nei nimbi non impedisce di coglierne la sottile lavorazione a punzone. La gamma cromatica, basata sul contrasto tra il colore viola-rosato del manto della Vergine e il fondo di vegetazione scuro, appare insolitamente viva;Il paradiso perduto, per un archivio della memoria estense, Fondazione CARIFE, Pinacoteca Nazionale, 1999 p.41

Giovanni di Pietro Faloppi

Madonna col il Bambino

“Michel Angelo da Caravaggio”; questo è l’autore della tela a giudizio dell’estensore dell’inventario 1850. In seguito, Mina Gregori si orienta verso Orazio Borgianni (inv. 1983 P. S. S.) e con tale attribuzione compare nel catalogo d’asta Sothebu’s a Milano nel 1992. Il dipinto raffigura la Madonna nella contemplazione amorosa del Gesù Bambino disteso che stringe nella destra i due fiori bianchi e contemporaneamente si trastulla col rosario della madre. Un’altra versione di questo dipinto assai simile (attualmente in collezione privata Koelliker, a Milano) condivideva in passato l’attribuzione a Orazio Borgianni (Formulata da Roberto Longhi e avallata in seguito da Federico Zeri e da Mina Gregori) che si giustifica in parte alla luce del forte naturalismo dell’immagine stemperato in una resa pittorica riccamente materica. Rimarcando tali aspetti, Daniele Benati ha restituito entrambi gli esemplari a Guido Cagnacci – un artista la cui vicenda giovanile si dimostra implicata negli sviluppi della tradizione di ceppo caravaggesco a Roma – giudicandoli testimoni della progressiva maturazione di stile condotta dall’artista sul finire del terzo decennio del secolo. Il confronto tra i due esemplari, entrambi pienamente autografi, porta ad assegnare al dipinto Strozzi Sacrati un leggero posticipo ( opinione condivisa anche da Mina Gregori). Le varianti meglioo percepibili riguardano il formato della tela e il conseguente taglio dell’immagine, più verticale nella versione ora in collezione Koelliker, e il tipo severo della Vergine, che nel dipinto Strozzi Sacrati appare più giovanile e anche più popolaresco, apparentandosi con quell’angelo che configge la freccia nel petto della santa Teresa entro la pala San Giovanni Battista di Rimini ( circa 1630): la resa della capigliatura ricciuta è assai prossima e risulta poi evidente come in entrambi i dipinti compaia un identico ideale di bellezza marcatamente popolana (Benati 1993). In entrambi i dipinti, spicca il dettaglio naturalistico offerto dai fiori stretti nella mano del Bambino, particolare più volte introdotto da Cagnacci nelle proprie composizioni in modo così espressivo tanto da farne ricordare una con la denominazione di Madonna della rosa ( Forlì, collezione Privata), dove rivediamo anche nella Madonna lo stesso volto della stessa modella ritratta nei due dipinti sopra citati.;Giuliana Marcolini, La collezione Sacrati Strozzi, I dipinti restituiti a Ferrara, Fondazione CARIFE, Federico Motta Editori S.p.A., 2005, Milano.

Guido Cagnacci

Santa Cecilia

Questo dipinto potrebbe rientrare tra quelli costituenti il nucleo più antico della collazione, se si riferisce a esso il documento in cui si cita un dipinto raffigurante Santa Cecilia tra i beni lasciati in eredità da Giulio Sacrati nel 1694. Nella Raccolta viene citato come Paolo Verose, attribuzione che rimane fino al 1983 quando Mina Gregori lo accredita a “Ippolito Scarsella detto lo Scarsellino”. Con tale attribuzione viene presentato nel catalogo d’asta Sotheby’s nel 1992. Nel 1996 Jadranka Bentini (1996) riconferma lo Scarsellino come autore del dipinto, che vede bene come tipica opera da collezione, adatta a figurare in una “Galleria” della Ferrara del Sei-Settecento, dove molti erano i quadri di “genere” musicale; come appunto quello citato nell’inventario 1694, relativo ai beni lasciati in eredità da Giulio Sacrati, personaggio ampiamente ricordato dalla storiografia locale per aver “fatta copiosa e ricca raccolta di molte anticaglie e ne mostrava una nobilissima galleria […] ricolma di […] pitture”.

Ippolito Scarsella

Crocifissione

Tra le quattro composizioni, la Crocifissione è quella più ricca di personaggi, vi compaiono figure in movimento, che reagiscono con vivacità o che soffrono. Cristo crocifisso domina la parte superiore della scena. Al suo fianco si trovano i due ladroni in croce in posizione agonizzante. Tutti si proiettano in un cielo tempestoso e oscuro, squarciato dalla luce soltanto dietro il corpo di Gesù. Ai piedi della croce centrale la Vergine svenuta è sorretta da San Giovanni, dalla Maddalena e da altre donne. Nell’angolo sinistro due soldati si giocano ai dadi la tunica di Gesù crocifisso. Intorno alla base delle croci si accalca una moltitudine di gente a cavallo o a piedi, il centurione a destra, due soldati con la lancia e la spugna e altri con stendardi ondeggianti, mentre un servo su una scala si appresta a torturare le gambe di uno dei ladroni. […];José Alvarez Lopera, El greco, identità e trasformazione. Creta, Italia, Spagna. Skira, 1999

Theotocopulos Domenico

Cristo davanti a Pilato

Nel Cristo davanti a Pilato, l’interesse dello spettatore è focalizzato su tre punti del quadro. Cristo, legato e con la corona di spine, entra da sinistra. Un gruppo di ebrei sulla destra ne nota la presenza. Ponzio Pilato, con corona sul capo, siede davanti a una tenda rossa sua una tribuna circolare gradinata, sullo sfondo destro. Due dei suoi servizi, di cui uno nero, sostengono la brocca e il catino cosicché possa lavarsi le mani. Il pavimento è composto da marmi policromi, tagliati in diverse forme geometriche e collocate simmetricamente e in prospettiva di scorcio. […];José Alvarez Lopera, El greco, identità e trasformazione. Creta, Italia, Spagna. Skira, 1999

Theotocopulos Domenico

Preghiera nell’orto

Nell’orazione nell’orto, Cristo prega in ginocchio a fianco di una roccia scura. L’angelo, con braccia nude e manto ondeggiante, gli appare in una luce dorata e gli porge il calice. I tre apostoli si sono addormentati e giacciono in posizioni ritorte, ciascuna differente dall’altra. In primo piano vi sono San Giovanni, con il capo appoggiato sulle ginocchia, San Pietro, appoggiato a una roccia con la spada nella mano distesa (probabile allusione alla scena seguente il ciclo della Passione, il tradimento di Giuda e l’arresto di Cristo, quando San Pietro, irato, taglia l’orecchio al servo Malco) e poco più in là Giacomo con le spalle appoggiate a quelle di San Giovanni e con il manto come cuscino. Il piccolo olivo selvatico in basso a destra ricorda il nome del luogo: Monte degli Olivi. La strutturazione geometrica della composizione si caratterizza per assi oblique subordinate a uno schema simmetrico, con la figura di Cristo al centro. A sinistra, il paesaggio si apre su basse colline verdi e su alcuni edifici appena visibili, semplicemente abbozzati sullo sfondo. Al di sopra di tutto questo, tra le nubi, spunta il sole (inizialmente disegnato più a destra). Il cielo si tinteggia di un rosa dorato, sopra vi si proiettano i radi rami dei cespugli della scura roccia, che circonda minacciosa la figura di Cristo. I riflessi della luce illuminano tutti i personaggi. Il volto di Cristo, e specialmente la sua fronte, brilla come fosse umida di un sudore d’agonia. Più intensi sono i riflessi nei manti degli apostoli, dove si formano superfici illuminate ampie e brillanti, di ricca trama. ;José Alvarez Lopera, El greco, identità e trasformazione. Creta, Italia, Spagna. Skira, 1999

Theotocopulos Domenico