Autore: Ahmed Boudraa

venere e vulcano

Venere e Vulcano

I due episodi mitologici (Diana e Endimione e Venere e Vulcano), così comuni alla pittura del XVIII secolo, narrano, con fare sciolto e corposo e con rinnovato classicismo, i Diana che veglia con Amore il sonno di Endimione e di Venere che ordina a Vulcano le armi per Enea. L’intenso colorismo veneto, impastato di chiaroscurato naturalismo, sottolinea i molti elementi derivanti dalla consuetudine dell’artista, verosimilmente ipotizzabile in Nicola Grassi, con le opere di Sebastiano Ricci e del Pellegrini. Queste tele sono probabilmente ascrivibili agli anni intorno al 1720, all’attività matura quindi del grassi, per quei medesimi caratteri morfologici, addolciti da subitanei chiarori argentei, “in un’atmosfera calda e rubea”, che si vedono nella Rebecca al pozzo della chiesa di San Francesco della Vigna a Venezia e in Lot con le figlie dei Civici Musei di Udine. Uno stesso gusto dei bianchi densi e leggeri sulle epidermidi tenere e pallide, accomuna le figure femminili in atteggiamenti molli e gentili. Queste due tele Massari in tutti i cataloghi della Galleria venivano attribuite a Gaetano Gandolfi.;a cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Nicola Grassi

diana e endimione

Diana e Endimione

I due episodi mitologici (Diana e Endimione e Venere e Vulcano), così comuni alla pittura del XVIII secolo, narrano, con fare sciolto e corposo e con rinnovato classicismo, i Diana che veglia con Amore il sonno di Endimione e di Venere che ordina a Vulcano le armi per Enea. L’intenso colorismo veneto, impastato di chiaroscurato naturalismo, sottolinea i molti elementi derivanti dalla consuetudine dell’artista, verosimilmente ipotizzabile in Nicola Grassi, con le opere di Sebastiano Ricci e del Pellegrini. Queste tele sono probabilmente ascrivibili agli anni intorno al 1720, all’attività matura quindi del grassi, per quei medesimi caratteri morfologici, addolciti da subitanei chiarori argentei, “in un’atmosfera calda e rubea”, che si vedono nella Rebecca al pozzo della chiesa di San Francesco della Vigna a Venezia e in Lot con le figlie dei Civici Musei di Udine. Uno stesso gusto dei bianchi densi e leggeri sulle epidermidi tenere e pallide, accomuna le figure femminili in atteggiamenti molli e gentili. Queste due tele Massari in tutti i cataloghi della Galleria venivano attribuite a Gaetano Gandolfi.;a cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Nicola Grassi

san giorgio

San Giorgio

Insieme ad altri quattordici tondi esposti in Pinacoteca, e ad altri cinque in raccolte private, il San Giorgio era parte di un ciclo decorativo per il refettorio dell’omonimo convento degli Olivetani. Con le soppressioni napoleoniche il complesso fu acquistato dalla potente famiglia dei Massari e gli affreschi, ridotti alle sole sacre figure, furono strappati, distruggendo così l’integrità dell’insieme e i motivi vegetali che dovevano unire i diversi personaggi. Giorgio Vasari nelle sue Vite (1568) sostiene che Girolamo da Carpi lasciò incompiuto il ciclo, che sarebbe stato ultimato da un altro artista. La critica moderna ritiene che
gli affreschi siano frutto della collaborazione fra il Sellari e la bottega di Garofalo, tra il 1530 e il 1550. Il San Giorgio è l’unica tra le quindici sezioni a non essere stata ridotta a forma circolare, conservando l’effetto di sfondamento illusionistico dato dal braccio con la lancia e dall’elmo che escono dallo spazio abitato dal santo.

Girolamo Sellari

il redentore

Il Redentore

Il dipinto proveniente dalla collezione Ughi, è attribuito unanimemente nei cataloghi della collezione Massari (in cui entra prima del 1901) a Garofalo. Nella scheda del dipinto redatta per il volume delle collezioni d’arte della Cassa fi Risparmio di Ferrara (1984), chi scrive la ritenne autografa e , collocandola nel periodo giovanile dell’artista, ne sottolineava la derivazione dai modi naturalistici e protoclassistici di Boccaccio Boccaccino, artista cremonese che con la propria esperienza a Ferrara nel 1499 ebbe modo di incidere in maniera determinante sulla svolta classicistica di Garofalo. Ad una più attenta indagine, il dipinto presenta cadute di tono qualitativo nell’impaccio del disegno pittorico e nell’accademica espressività del volto di Cristo tanto che, se confrontato con il Redentore del Museo di Budapest, caratterizzato da uno sfumato sapiente e da un modellato morbido e sentimentale tipico del naturalismo “classicista” di Garofalo giovane, il dipinto ferrarese evidenzia, pur nelle strette analogie iconografiche, un forte divario linguistico da far sorgere non pochi dubbi sulla sua autografia.;a cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Benvenuto Tisi

sposalizio mistico di santa caterina

Sposalizio mistico di Santa Caterina

Tipica produzione, parallela alle pale d’altare, dei figli di Francesco Francia, che lavoravano in coppia firmando spesso le loro opere maggiori I.I FRANCIA cioè Iacobus e Iulius Francia. La tavoletta raffigura il matrimonio mistico di Santa Caterina: la Madonna, con lo sguardo rivolto verso lo spettatore, sorregge, seduto su un cuscino, il Bambino Gesù che sta infilando l’anello nel dito della Santa Caterina posta sulla sinistra della composizione; a destra in secondo piano, è san Giuseppe. Questo tema iconografico è molto diffuso nella pittura bolognese, soprattutto tra i seguaci del Francesco Francia: non solo i suoi figli, ma anche Innocenzo da Imola e Bartolomeo Bagnacavallo. Il fenomeno si può spiegare probabilmente come una conseguenza del riconoscimento ufficiale, avvenuto nel 1524, della devozione verso la Santa per eccellenza di Bologna, Caterina Vigri. La diffusione di tavolette devozionali destinate perlopiù ad una committenza privata e raffiguranti “Matrimoni mistici di Santa Caterina” è dunque presumibilmente da ricollegare a quel clima devozionale cinquecentesco bolognese che tendeva ad esaltare la comunione spirituale e l’unione mistica col Signore, come Santa Caterina da Bologna. Il dipinto porta la tradizionale attribuzione a Giulio Francia, tuttavia ciò non si può confermare in quanto è totalmente sconosciuta l’attività dell’artista indipendentemente dal fratello maggiore. Inoltre è indicativo il confronto con un’opera firmata e datata 1544 dal solo Giacomo Francia ( Giulio morì poco dopo quella data, nel gennaio 1545): la Madonna in trono col Bambino, angeli e Santi ora nella chiesa di Santa Maria di Piazza a Busto Arsizio (deposito della Pinacoteca di Brera) ma dipinta per la chiesa bolognese dei Santi Gervasio e Protasio. In prossimità di quella pala, in cui Giacomo recupera uno schema compositivo ormai arcaico, legato al ricordo delle opere indimenticabili del padre, va collocata anche questa tavoletta, per evidenti confronti stilistici. ;a cura di J.Bentini, La pinacoteca nazionale di Ferrara, catalogo generale. Nuova Alfa Editoriale, Bologna, 1992.

Giacomo Raibolini

ritratto di bambino con il servitore

Ritratto di bambino con il servitore

Nell’inventario 1850 questo piccolo dipinto viene registrato come opera di “Crespi detto lo Spagnoletto”, attribuzione confermata dia da Mina Gregori nel 1983 sia dal catalogo delle vendite Sotheby’s del 1992. Il soggetto rappresentato, indicato genericamente come “fanciullo in piedi con un moro che alza la cortina” nell’inventario ottocentesco, viene più specificatamente individuato nel “figlio del generale Pallfy” dalla Gregori e come tale appare nel catalogo d’asta del 1992. L’identificazione proveniva dal fatto che questo dipinto sembrava essere un modelletto preparato da Giuseppe Maria Crespi pe un ritratto di fanciullo, considerato appunto il figlio del generale Pallfy, che fu comandante dell’esercito imperiale in Italia tra il 1699 e il 1703 come data di esecuzione del dipinto da parte di Crespi. Tale dipinto approdò nella collezione modenese Campori e vi rimase fino al 1929, quando il marchese Matteo Campori fece dono di tutta la sua collezione al Comune di Modena, compreso il ritratto di Crespi. Ma negli ultimi tempi la critica ha sollevato motivate obiezioni circa l’identità del ragazzo e ha preferito parlare più genericamente di Ritratto di fanciullo, per cui anche per il soggetto del dipinto Strozzi Sacrati si preferisce parlare genericamente di bambino, il “fanciullo” della definizione ottocentesca. Ma anche la dichiarata autografia crespiana di questa piccola tela impone qualche ripensamento. Angelo Mazza, infatti, sostiene che, per quanto il dipinto sia stato eseguito negli anni in cui Giuseppe Maria Crespi era ancora attivo e mostri caratteri stilistici a lui molto vicini, occorre osservare che la stesura manca della virtuosistica efficacia propria delle sue opere di piccolo formato. In questo dipinto, infatti, il pennello si attarda sui ricami dorati del costume del bambino e ripropone con fatica i tracciati guizzanti della veste del servitore e delle pieghe della tenda, evidenziando una mano di tratto non così sicuro quanto quella dello Spagnoletto. L’adesione allo stile del grande maestro e le intenzioni mimetiche possono far pensare a un’esercitazione di Luigi Crespi, figlio di Giuseppe Maria, celebre ritrattista noto in particolare per l’attività di storiografo e di polemista; si dovrebbe allora supporre una datazione posteriore al 1730.;Giuliana Marcolini, “La collezione Sacrati Strozzi, i dipinti restituiti a Ferrara” Fondazione CARIFE, 2005.

Luigi Crespi

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